La progressiva decadenza del patrimonio librario pubblico in Italia secondo Maria Pia Paoli, ricercatrice di Storia moderna alla Normale e socia di SISEM (Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna).

di Maria Pia Paoli

“Converso co’ libri come colle persone…” Così, nel 1713, il celebre grecista fiorentino Anton Maria Salvini confidava ad un amico scultore la sua passione per la lettura. Nella Firenze di Antonio Magliabechi, bibliotecario granducale e bibliofilo ben conosciuto dalla comunità dei dotti europei del suo tempo, libri e codici abbondavano. Di lì a pochi anni si aprirono al pubblico sia la Biblioteca Magliabechiana, poi fusasi con la Palatina nel 1771, che la Marucelliana appositamente destinata fin dal 1752 a questa funzione dal suo fondatore, l’abate Francesco Marucelli.

Altre illustri biblioteche, dall’Ambrosiana di Milano alla Sistina di Roma, avevano nel tempo portato avanti il duplice intento di conservare e comunicare il sapere, così come avveniva nei principali paesi europei. Manoscritti e stampe spesso convivevano su scansie e plutei polverosi, mentre il materiale diplomatico giaceva negli archivi che più a lungo restarono segreti, sia che si trattasse dell’Archivio Vaticano, che di quelli appartenenti alle varie dinastie al potere e poi divenuti statali e consultabili in tempi non troppo lontani dai nostri.

Che cosa accade oggi alla luce di questi fugaci riferimenti al passato? Molto è cambiato, ed è quasi ovvio sottolinearlo, proprio nell’approccio al testo e al documento cartaceo che già in molti casi è possibile consultare o trasmettere on-line. Ma se è in parte declinata quella dimensione solenne e a tutto tondo che il raccoglimento nella lettura del libro, custodito, postillato, toccato con mano, comportava per i contemporanei dell’abate Salvini, non è mutata l’esigenza di leggere, di studiare, di conservare libri e documenti come strumenti fondanti dell’esperienza conoscitiva. Ne sono una prova tangibile anche alcuni importanti interventi edilizi del XX secolo, quali la nuova Bibliothèque Nationale di Parigi, la British Library di Londra, o per restare in Italia, la Bibilioteca Nazionale di Roma a Castro Pretorio, o l’Archivio di Stato di Firenze costruito sullo stile del Beaubourg parigino con tanto di strutture tubolari e lucernari. Interventi non di poco conto, dunque, che per l’Italia soprattutto sono prova di un po’ di coraggio dimostrato nel destinare risorse per costruire finalmente qualcosa ad hoc per la cultura. Tutti sappiamo, infatti, quanto per scuole e università, così come per biblioteche e piccoli o medi archivi, si è quasi sempre ricorsi all’utilizzo di strutture preesistenti ereditate dalle soppressioni dei conventi attuate a partire dal periodo napoleonico e proseguite con l’Unità d’Italia.

A fronte di questi spazi “riusati” e contesi, libri, documenti, riviste, quotidiani, opuscoli e manifesti continuano a crescere in maniera esponenziale e così il numero dei lettori, studenti, studiosi, ma non solo. Gli storici sanno quanto negli archivi bazzichino spesso architetti, geometri, ingegneri, notai che, per il proliferare della legislazione in ogni campo, sono costretti a ricostruire le fasi pregresse di una data situazione.

Il ricorso alla catalogazione informatizzata sia nelle biblioteche principali che negli archivi ha indubbiamente portato ad uno snellimento delle procedure di accesso da parte degli studiosi, ma altri dati fanno temere per la sopravvivenza dei depositi del sapere. E sono questi: progressiva mancanza di risorse finanziarie, esodo per pensionamento del personale delle biblioteche nazionali e degli archivi statali, mancanza di concorsi e assunzioni, spazi ancora angusti e talvolta a rischio.

Tutto ciò ha comportato, come nel caso della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze che meglio conosco, ad una riduzione del materiale distribuito e ad una limitazione degli orari stessi della distribuzione per cui sono penalizzate le richieste inoltrate nel pomeriggio. In altri casi, come per l’Archivio di Stato di Parma, o per quello di Pisa, solo per fare degli esempi, sono emersi grossi problemi a livello finanziario, tali da renderne precaria l’apertura al pubblico.

Negli anni ’90 in varie città, a Venezia, a Firenze, a Napoli si fondarono delle associazioni di lettori che un po’ infuriati, un po’ propositivi, cercavano di far sentire le proprie ragioni al Ministero dei Beni Culturali, ai direttori di archivi e biblioteche, ai giornali, nella profonda convinzione, che è quella sempre prevalente, di combattere una battaglia non affatto corporativa, ma rivolta a sensibilizzare governi e opinione pubblica sul valore della memoria storica da conservare e da rendere fruibile con agio. Ma il risvolto negativo di questa pacifica crociata fu ed è proprio quello della difficoltà di riuscire a far notizia. Inutile nascondere, infatti, che biblioteche e archivi sono un po’ le Cenerentole dei Beni Culturali e fra la gente sono molto meno popolari dei musei; non che gli stessi musei navighino in acque migliori, ma nell’immaginario collettivo fa più scalpore sapere che qualche squilibrato abbia sfregiato la Gioconda di Leonardo, piuttosto che un bibliofilo infervorato dei nostri giorni abbia rubato o smembrato un incunabolo o una cinquecentina. A proposito di queste diversità, è vera anche un altro aspetto, che ci riporta al lato economico. I musei in parte si autofinanziano con vendita di biglietti di ingresso, cataloghi ecc.. Biblioteche e archivi no. Almeno non in Italia, mentre i nostri cugini francesi fanno pagare 35 euro all’anno per la Bibliothèque Nationale e 3 euro al giorno, ad esempio, per la Bibliothèque Mazarin.

A questo punto occorre chiederci: che fare? Per parte mia posso dire che con la collaborazione di altri colleghi storici, nell’ambito della SISEM, associazione degli studiosi dell’età moderna, stiamo muovendoci per raccogliere dati concreti e stilare poi un documento da sottoporre al futuro ministro dei Beni Culturali. Non dimentichiamoci, per concludere, dei corsi di laurea in Beni culturali, istituiti da pochi anni e ai quali molti giovani si sono rivolti nella speranza di sbocchi più concreti di impiego e che, purtroppo, hanno creato molte disillusioni. Senza drammatizzare, ma con raziocinio ed un po’ di onesto entusiasmo bisognerà in qualche modo far comprendere meglio e più in generale quanto il patrimonio librario e documentario italiano sia inestimabile al pari delle opere d’arte, quanto sia importante la sua ricaduta morale e culturale sulla crescita del paese e di chi lo abiterà nei prossimi anni, sia per chi vi ricerchi identità perdute, sia per chi vi riscopra punti di contatto anche col mondo allargato di questo secolo.

CHE COS’È LA SISEM

La Società Italiana per la Storia dell’Età Moderna (SISEM) si è costituita ad Arezzo il 16 maggio 2003. Suo scopo è quello di elevare e diffondere la cultura storica e in particolare di promuovere gli studi di storia del Rinascimento e dell’età moderna in Italia (secc. XV-XIX), nella loro più ampia accezione e la loro valorizzazione nell’ambito scientifico, accademico, civile.

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