Le “passioni” degli uomini sono eterne, la natura umana è uniforme e la storia, in parte, può spiegare il presente rifacendosi al passato. Ma quali usi si sono fatti, nel corso del tempo, della storia? Ne parla il professor Giuseppe Cambiano, recentemnete insignito dall’Associazione italiana del Praemium classicum clavarense per l’ anno 2006, uno dei massimi riconoscimenti, assegnato ogni anno a Chiavari, nel campo degli studi classici.

di Giuseppe Cambiano

Forse Tucidide si sarebbe rallegrato, se avesse potuto leggere, alla fine di settembre 2002, quando già circolava la dottrina sull’attacco di difesa preventiva all’Irak e soffiavano venti di una prossima guerra, un articolo di Lewis Laphman sulla rivista statunitense «Harper’s». In esso era stabilito un confronto fra questo ‘salto nel buio’ e la decisione presa nel 415 a.C. ad Atene di attaccare Siracusa con un’imponente spedizione militare. Il commento dell’autore dell’articolo era che l’errore fatale di Alcibiade era stato di pensare di poter prendere qualunque decisione soltanto in quanto Atene era la massima potenza del tempo. In fondo Tucidide avrebbe potuto apprezzare questo uso del suo racconto come conferma del suo teorema, secondo cui ciò che è avvenuto in passato potrà un giorno avvenire in maniera uguale o molto simile.

A prescindere da queste considerazioni, è un fatto che il teorema dell’uniformità della natura umana, soprattutto nel suo corredo di passioni, è stato non di rado addotto anche in tempi recenti a sostegno dell’utilità della storia. Nel 1946 lo storico moderno di Oxford Alfred L. Rowse rafforzava questa convinzione con l’osservazione che la storia mette a disposizione un ambito di esperienze più ampio di quello dell’esperienza puramente individuale ed è utile, per questo aspetto, soprattutto alla formazione delle élites dirigenti. Rowse formulava anche una variazione dell’argomento di Tucidide affermando che, pur essendo imprevedibile ciò che è individuale, tuttavia «grandi raggruppamenti sociali, masse di uomini, classi, comunità, nazioni, tendono a reagire in modi simili a situazioni simili»

Nessuna opera storiografica si può sottrarre all’uso che ne verrà fatto, corrisponda questo o no alle intenzioni dell’autore. Ma si può anche aggiungere che, come buona parte dei discorsi, anche quello storiografico contiene un uso prefigurato minimo, connesso alla pretesa di verità di quanto esso enuncia, e questo mira a coinvolgere i destinatari reali o potenziali, presenti o futuri, affinché ne condividano i contenuti.

Per ottenere il consenso è stata escogitata una molteplicità di tecniche, che via via sono venute costellando il lavoro storiografico, dal ricorso esplicito all’autopsia o a testimonianze orali alle connessioni tra documenti, all’impiego di tecniche stilistiche e narrative, sino al moderno impiego di note. La cosa preoccupante è che queste stesse tecniche sono state messe in opera anche per la costruzione sia di storie false o immaginarie, sia di falsi veri e propri. E’ ovvio che qui il discrimine tra uso ed abuso della storia diventa estremamente sottile e deve essere valutato di volta in volta, ma ciò che conta è che l’uso cognitivo o, almeno, informativo cui si destina un’opera storiografica o pseudo-storiografica è pur sempre fondato su una pretesa di verità.

“Lo storico tende ad un coinvolgimento anche valutativo dei destinatari della sua opera già attraverso i meccanismi di selezione che presiedono al suo discorso. Si tratta a volte di una destinazione d’uso ristretta intenzionalmente a una piccola cerchia di competenti, ma è ovvio, d’altra parte, che gli usi delle opere storiografiche mutino col variare del pubblico cui sono destinate e con il mutare delle modalità stesse di lettura. Non è detto che uno storico abbia sempre in mente un pubblico definito, per esempio di colleghi, e non piuttosto generale”

“La grande svolta nelle modalità d’uso del lavoro storiografico e non solo da parte di un pubblico professionale si ebbe con l’istituzionalizzazione in epoca moderna dell’insegnamento della storia. Su ciò credo che cose essenziali siano state dette da Arnaldo Momigliano:

«Dagli storici greci e romani non ci si aspettava che fossero i guardiani della tradizione. Non ci si aspettava che si succedessero l’un l’altro in una professione sostenuta dallo Stato o da istituzioni religiose, e non era affar loro tenere il cambiamento sotto controllo: la storiografia era lo specchio del cambiamento. E’ anche dubbio che lo storico volesse che i suoi lettori capissero il presente: questo è un atteggiamento moderno, che non dobbiamo proiettare sullo storico classico.»

Poi le cose sarebbero cambiate e, soprattutto a partire dal XIX secolo, la storia avrebbe sopravvalutato le proprie forze, ritenendo di poter rispondere a domande circa lo scopo dell’esistenza o la qualità del futuro, domande a cui la storiografia non può rispondere.”

“Abbiamo bisogno di storia – diceva Nietzsche – ma in modo diverso da come ne ha bisogno l’ozioso raffinato nel giardino del sapere, non per il comodo ritrarci dalla vita e dall’azione. Il criterio di legittimazione della conoscenza del passato consiste nel suo essere messe al servizio del futuro e del presente, non per indebolire il presente.”

“Occorre riconoscere che di fatto il lavoro storiografico è quasi sempre stato svolto con un’implicita o esplicita posizione antagonista nei confronti di altri prodotti storiografici, ma anche di credenze e scelte pratiche. E’ difficilmente contestabile che buona parte della vita umana sia condizionata da tradizioni, che si trasmettono pressoché automaticamente attraverso l’apparato sociale e che si condensano in usi, comportamenti, norme, credenze e così via. Di fronte a ciò non va sottovalutato il fatto che la storiografia non è l’unica depositaria della memoria del passato: è indubbiamente ottimistico pensare che l’indagine storiografica possa dissolvere automaticamente altri usi del passato.”

“Non so se avesse ragione Nikita Chrusčev nel dire che «gli storici sono gente pericolosa: sono capaci di sconvolgere ogni cosa». Certo anche lo storico può essere vittima inconsapevole di miti o tradizioni, che utilizzano il passato come forma di autolegittimazione per giustificare scelte o proposte politiche presentate come vere e legittime eredi e continuatrici di un passato caricato di una patina di grandezza e di eccezionalità, senza tener conto dei caratteri specifici sia del passato, sia del presente Di fronte a ciò non si può che richiamare il detto del vecchio Bayle: «la perfection d’une histoire est d’être déseagréable à toutes le sectes».”