Pubblichiamo una sintesi della relazione che Massimo Scalia, docente di fisica alla Sapienza di Roma, climatologo, ambientalista, ha tenuto giovedì 1 marzo, nell’ambito del ciclo di conferenze Matematica cultura e società, del Centro di ricerca matematica Ennio De Giorgi.

di Massimo Scalia

Nel 1960, anno “storico” in cui il petrolio raggiunge il carbone come fonte primaria d’energia, il fabbisogno energetico mondiale era poco più di un quarto di quello attuale. Nei decenni successivi si afferma, soprattutto nei Paesi industrializzati, un sistema energetico che all’accoppiata carbone-idroelettricità sostituisce quote sempre più elevate di petrolio e, poi, di gas naturale.

L’ “era del petrolio” si caratterizza per la tremenda connessione con la guerra. A partire dal 1973 i conflitti che si succederanno nel Medio Oriente – la guerra del Kippur nel ‘73, la prima guerra del Golfo nel ‘91 e la seconda nel 2003 – avranno sempre, tra le motivazioni determinanti, il controllo dei flussi e dei prezzi del greggio in un’area, quella del MO, di grande produzione e di grandi riserve (oggi i Paesi del Golfo Persico detengono i 2/3 delle riserve operative).

Lo squilibrio nella distribuzione delle risorse energetiche – ancora oggi 1/6 della popolazione mondiale (i Paesi OCSE) ne consuma quanto gli altri 5/6 -, si colloca nel più generale quadro dell’insostenibilità di una crescita economica dei Paesi “forti” fondata su rapporti di spoliazione se non di rapina: dalla deforestazione selvaggia dell’Amazzonia alle estrazioni petrolifere nel delta del Niger. A tutto ciò corrisponde un impatto sulla natura e sull’ambiente senza precedenti. Al punto che, ormai quasi vent’anni fa, un filosofo, Hans Jonas, si interrogava se l’umanità non avesse contratto un debito morale non soltanto nei confronti delle generazioni future ma anche della biosfera.

Disuguaglianza e guerre per il petrolio rendono drammatico lo scenario energetico, ma le cose non vanno purtroppo molto meglio se si guarda all’aspetto, più “tecnico”, dell’efficienza energetica. Assumendo come indice, approssimativo, il rapporto tra consumi energetici e fabbisogno richiesto per far fronte a quei consumi, si trova che negli ultimi trent’anni questo rapporto è peggiorato, per il sistema Mondo, di ben 7 punti. Un peggioramento trainato proprio dai Paesi tecnologicamente più avanzati.

Delle devastazioni ambientali e dei rischi che comporta un’attività dell’uomo sottratta a ogni criterio di razionalità generale, sono ormai un emblema i drammatici cambiamenti climatici che stiamo da tempo vivendo. La combustione dei fossili, che rappresentano ancora l’ 80% del fabbisogno energetico mondiale, produce nei suoi molteplici impieghi insieme agli altri inquinanti l’anidride carbonica, la CO2, che è il maggioritario per concentrazione in atmosfera tra i gas di “serra”.

I gas di serra sono responsabili del global warming. La concentrazione di CO2 ha raggiunto un livello superiore del 30% a quello di fine ‘800; negli ultimi trent’anni le immissioni di CO2 in atmosfera sono passate da circa 16 mila Mton a circa 27 Mton, con un incremento di oltre 2/3. Gli Stati Uniti, che sono a tutt’oggi responsabili di oltre il 20% di quelle immissioni, saranno raggiunti dalla Cina, l’altro Paese grande consumatore di carbone, nei prossimi due o tre anni.

Per fare fronte a questa situazione lo IPCC (Intergovernmetal Panel on Climate Change), un “tavolo” dei tecnici designati dai Governi costituito in seno alle Nazioni Unite, ha proposto dal 1988 un percorso che, dalla Convenzione di New York (1992) ha portato al Protocollo di Kyoto (1997) e alla sua entrata in vigore il 16 febbraio del 2005.

Il lavoro dell’ IPCC è fondato sul riconoscimento che a determinare la “febbre” del Pianeta è stato l’utilizzo crescente dei combustibili fossili (causa antropica; e sugli scenari ipotizzabili a lungo e lunghissimo termine (2050, fine del XXI secolo), che correlano gli aumenti di temperatura con l’incremento della concentrazione dei gas di “serra” in atmosfera. La “causa antropica” è stata rifiutata dai tecnici americani, fino al pronunciamento in senso contrario dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti (2001). Questo Paese, insieme a Australia e Giappone, non ha però ratificato il Protocollo di Kyoto.

Il moltiplicarsi di gravi fenomeni connessi alle alterazioni climatiche – l’intensificarsi di alluvioni e uragani mentre si estendono le aree di siccità, l’infittirsi dei massimi di temperatura negli ultimi vent’anni, il raddoppio del ritmo di scioglimento dei ghiacci artici, per citare i più noti – ha convinto la comunità scientifica a prendere posizioni univoche. Nell’appello rivolto al G8 nel 2005, le Accademie scientifiche dei “12” (Paesi del G8 più gli “emergenti”) hanno sostenuto il nesso energia/cambiamenti climatici, configurandolo come “the major challenge of the xxith century”; al G8 di S.Pietroburgo del 2006 hanno raccomandato a una sola voce l’impegno per il risparmio energetico con cospicui investimenti pubblici, come la via più rapida e efficace per ridurre le immissioni di CO2.

A questi appelli hanno fatto seguito il libro “verde” sull’energia della Commissione UE, il rapporto Sterne e le prese di posizione sia del premier Blair che del suo antagonista Cameron, di Clinton come di Chirac e dello stesso Bush. Seppure in ritardo la politica si sta muovendo.

Eppure sarebbe stato possibile anticipare i tempi e “prevedere” drastici cambiamenti nei grandi fenomeni climatici, non davvero sul piano delle previsioni quantitative (entità e date per lo scioglimento dei ghiacci artici ecc.) ma ricorrendo all’analisi qualitativa dei sistemi dinamici, con la teoria della stabilità fondata alla fine del 19° secolo da Henry Poincaré e Aleksandr Lyapunov. Come ha fatto l’Accademia delle Scienze americana pubblicando, ma solo nel 2002, “Abrupt Change. Inevitabile surprises”…