I versi, le atmosfere, le suggestioni del poeta neogreco nell’affascinante esperienza di una lettura pubblica curata dal prof. Carmine Ampolo.

La Gipsoteca dell’Università di Pisa, diretta dalla dr.ssa Fulvia Donati, riaperta al pubblico e allestita di recente nella chiesa di San Paolo all’Orto è un ambiente di forte suggestione oltreché una raccolta storica pregevole e di grande utilità didattica. Essa ospita anche iniziative culturali, in particolare la serie “Una sera in Gipsoteca”. Il 5 dicembre 2005 vi si è svolta la lettura di poesie « “Versi liberi, modernissimi e vetusti”. Letture da Costantino Kavafis » .

Promossa dal professor Carmine Ampolo, con l’attiva collaborazione del Laboratorio Informatico per le Lingue Antiche “G.Nenci”, la lettura è stata efficacemente curata e condotta da Filippomaria Pontani, ellenista e studioso anche di poesia neoellenica. La selezione di testi poetici, di musiche non solo “di fondo” e di documenti e immagini di Kavafis, a contatto con calchi di opere d’arte greca, ha coinvolto emotivamente il pubblico che ha seguito con intensa partecipazione il piccolo gruppo di lettori volontari della Scuola Normale Superiore e della Scuola di Specializzazione in Archeologia dell’Università di Pisa. La fusione di versi, immagini, opere d’arte e musiche ha moltiplicato le sensazioni. Tutto l’insieme ha costituito un invito a leggere e rileggere ancora quei “versi liberi, modernissimi e vetusti” (definizione tratta da un testo di Marinetti) del poeta di Alessandria d’Egitto, con la loro sensibilità antica e moderna ad un tempo, con la loro profonda comprensione dell’ellenismo. Un’esperienza che merita di essere ripetuta con altri poeti, antichi e moderni.

Approfondimento

di Filippomaria Pontani

Per la soirée Kavafis del 5 dicembre 2005 ho scelto di dar voce a tre dei temi più caratteristici e originali della poesia di Costantino Kavafis (1863-1933): la speciale attitudine nei confronti della storia greca e bizantina, il rapporto con la città dove è nato e vissuto, Alessandria, e l’intensa esperienza di amore omosessuale che lo ha accompagnato lungo tutta la sua vita adulta. Del resto, in base al lessico di frequenza del corpus delle poesie kavafiane, le parole più frequenti sono “re”, “giorno” e “corpo”, in conformità ai tre filoni (poesia storica, filosofica ed erotica) in cui l’autore stesso distingueva – sia pure senza alcuna rigidità – la propria produzione.

Legato a una concezione aristocratica del fare poesia “per pochi”, Kavafis stampava le sue poesie in casa, ne tirava pochissimi esemplari e li distribuiva solo agli amici più fidati, nutrendo quasi il terrore che finissero in mani profane, e teorizzando la necessità di destinare i versi a un pubblico scelto (“Portai nell’arte mia”, “Teatro di Sidone”, “Scultore di Tiana”). Anche questo suo atteggiamento, unito a una vita quanto mai discreta e ritirata (lavorò come semplice impiegato nel Ministero egiziano dell’Irrigazione), contribuì a creare attorno a lui un'”aura” mitica, ma nel contempo rallentò alquanto la diffusione della sua poesia, specie sullo sfondo di un panorama letterario come quello greco di fine ‘800 e inizio ‘900, nel quale imperavano ancora languidi stilemi tardo-simbolisti e roboanti “poeti-vati” che si presentavano come cantori e depositari della nuova identità culturale della nazione.

È anche in contrapposizione esplicita a questo tipo di fare letterario che si spiega la sua passione per gli episodi “minori” della storia ellenistica e bizantina, la sua avversione per i grandi nomi e i grandi e gloriosi eventi del periodo classico (Atene e Sparta, per intendersi), e la sua attenzione del tutto nuova e speciale per mondi di frontiera, per terre e personaggi di recente o dubbia ellenizzazione, per momenti di incertezza e confusione religiosa (in specie il momento di discrimine fra religione pagana e cristiana), per reguli o poetucoli di regioni lontane in cui sopravviveva una particolare declinazione dello spirito greco diffuso da Alessandro Magno (“Oroferne”, “Filelleno”, “Miris”).

E quando Kavafis affrontava i fatti della grande storia o del mito, era solo per esemplificare la fragilità delle sorti umane, o per mostrare quanto sia risibile la pretesa degli uomini (da Cesare ad Achille) di sottrarsi a un fato già scritto (“Troiani”, “Slealtà”, “Idi di marzo”).

Nato e vissuto – salvo una breve parentesi costantinopolitana nell’infanzia, e rari viaggi ad Atene – in un’Alessandria ricca e cosmopolita, Kavafis fece della sua città il nido del suo vivere appartato, il luogo degli incontri con altri illustri scrittori del suo tempo (dagli indigeni Marinetti a Ungaretti allo straniero Forster, che fu peraltro il primo tramite del suo successo internazionale), l’erede dell’Alessandria ellenistica dove Antonio amava pericolosamente Cleopatra e gli Ebrei ellenizzati si arricchivano (“Il dio abbandona Antonio”, “Figlio d’Ebrei”), lo scrigno di mille tesori dell’antichità tarda (soprattutto statue e monete, custodite in parte nel Museo Greco-Romano che diresse poi per tanti anni il grande archeologo Evaristo Breccia, a lungo rettore dell’Università di Pisa), ma anche il luogo “mitico” e archetipico dell’ineluttabile disagio dell’uomo moderno (“La città”, “Mura”, “Monotonia”). Il suo senso di estraneità alla propria stessa patria (in parte motivato da ragioni biografiche: la sua appartenenza alla comunità greca di Alessandria gli precludeva ogni ascesa sociale e di carriera) finì ben presto per assumere una caratura più “cosmica”, fondamentalmente esistenziale e sempre più ignara dei limiti del tempo e dello spazio.

Alessandria è anche il teatro degli amori di Kavafis, amori descritti non già nella loro pienezza o nella loro luce mediterranea, bensì nella penombra del ricordo, nell’idealizzazione del piacere passato e irripetibile, nell’atmosfera soffusa di odori, sapori indefiniti, di luoghi memori di incontri occasionali ma irrimediabilmente finiti, assenti. L’eros di Kavafis è sospeso in uno spazio casuale, transitorio, privo di autonomia, e determinato da un “sentimento del tempo” che funge da cuneo tra il desiderio di dire e la forza contraria che si oppone e vorrebbe cancellare il passato nella nebbia (“Brame”, “Torna”, “Lontano”, “Voci”, “Tomba di Iasìs”, “Giorni del 1909, ’10 e ’11”).

Aperta da “Itaca” sulle note dello “Sguardo di Ulisse” di Eleni Karaindrou, la lettura del 5 dicembre si è chiusa con la celebre poesia “Candele”, letta in mezzo a una file di vere candele opportunamente disposte in alto sulla balaustra della chiesa di San Paolo all’Orto. Tramite accorgimenti registici, tramite la scelta di alcuni brani musicali di accompagnamento (da Vangelis ai Madredeus, da Philip Glass a Ludovico Einaudi, da Schubert a Stockhausen a Satie), e tramite una studiata collocazione dei lettori accanto a gruppi statuari specialmente significativi all’interno della Gipsoteca, si è cercato di rendere in questa lettura anzitutto il “tone of voice”, il “personal speech” che Wystan Auden riscontrava come caratteristica precipua (e intraducibile) della poesia di Kavafis. Una caratteristica la cui stessa unicità zittisce il critico (“criticism can only make comparisons”) e induce a leggere, ascoltare, immaginare. E a percepire in quella poesia l’eco di una dignità morale, di un’indiscutibile tensione davanti al tempo che passa e al terrore della morte (“Quanto più puoi”): proprio in questo, forse, sta la maggiore, perenne attualità del messaggio di Costantino Kavafis.

Tra le pubblicazioni di Filippomaria Pontani segnaliamo:

Antologia della poesia greca contemporanea , Milano, Crocetti 2004.

Kostas Kariotakis, L’ombra delle ore , Milano, Crocetti 2004.

Immanuìl Roidis, La Papessa Giovanna , Milano, Crocetti 2003.