Pubblichiamo l’intervento di Salvatore Settis in occasione de ll’inaugurazione dell’anno accademico 2007/2008 della Normale, il 197esimo della sua storia. Il direttore, alla luce dell’esperienza della Scuola pisana nella realtà accademica di “eccelenza” d’Europa e del mondo, traccia un quadro generale della formazione d’elite e individua obiettivi futuri.

di Salvatore Settis*

La riflessione che vorrei proporvi quest’anno prende spunto dal convegno franco-italiano tenutosi a Parigi qualche giorno fa a Sciences Po, alla presenza dei ministri francese e italiano dell’Università e della Ricerca, M.me Valérie Pécresse e On. Fabio Mussi. Il tema scelto dagli organizzatori (le ambasciate di Francia in Italia e d’Italia in Francia) era “Il ruolo della Francia e dell’Italia nel contesto del mercato accademico europeo. Emergenza di un modello europeo della formazione d’eccellenza e di ricerca”. In quell’occasione, ho sviluppato alcune considerazioni che vorrei oggi sottoporre alla vostra attenzione.

Il titolo di quel convegno contiene, e non è affatto un caso, due formule oggi assai ricorrenti: “mercato accademico” e “eccellenza”. Dobbiamo cominciare col chiederci se e in quale accezione tali formule siano accettabili dall’osservatorio della Normale di Pisa. Di “mercato accademico” si parla in effetti da vari anni, prendendo a prestito questa etichetta dal linguaggio corrente specialmente negli Stati Uniti (intellectual market place e simili espressioni). Credo che formule come queste possano essere utilizzate solo con marcato e dichiarato valore metaforico, ma che, se prese invece alla lettera, contengano in sé equivoci e problemi che è bene esorcizzare: esse possono infatti suggerire la mercificazione della cultura, la priorità della dimensione economica su quella culturale, la subordinazione di ogni progetto di formazione e di ricerca a esigenze dettate dal mercato tout court.

Senza insistere su questo punto, in quanto ovvio, vorrei sottolineare un’implicazione, di solito poco notata, che la formula del “mercato accademico” trascina inavvertitamente con sé: il suo carattere di stretta attualità sembra infatti suggerire che è solo nel nostro mondo “globalizzato” che si è creata per la circolazione degli intellettuali e dei ricercatori un’arena mondiale. Non è così: la storia insegna che mai vi furono tanti clerici vagantes quanti ne girarono da un’università all’altra d’Europa nel Medio Evo e nella Rinascenza, per non dire dei secoli successivi. Insomma, la competizione internazionale, la circolazione degli uomini e delle idee è una costante della storia intellettuale europea, e non un portato di situazioni recenti o recentissime. Riformulare questa storia antica e illustre in termini di “mercato accademico” non aiuta a capirla, ma rischia piuttosto di introdurre una falsa chiave aziendalistica in una tematica di assai maggiore sottigliezza e complessità.

Egualmente dal linguaggio aziendalistico è penetrata nel mondo accademico americano, come ben risulta dal libro The University in Ruins di Bill Readings, l’etichetta bonne à tout faire dell’ “eccellenza”. Secondo Readings, lo sviluppo del sistema universitario americano può essere descritto come la progressiva eliminazione della “University of Culture” (puntata alla produzione di conoscenza), sostituita da una “University of Excellence”, dove l’eccellenza diviene la carta-moneta di uso comune e la parola d’ordine più diffusa precisamente a causa del suo carattere non-ideologico. «Quello che viene insegnato o studiato importa molto meno del fatto che venga insegnato o studiato in modo “eccellente”». Come il denaro, l’eccellenza non olet , in quanto è del tutto priva di contenuto, non è né vera né falsa, ma si presta come vuota formula sulla quale tutti si trovano prontamente d’accordo proprio in quanto autoreferenziale.

*Discorso di inaugurazione dell’anno accademico tenuto da Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale, il 18 ottobre 2007 nella Sala degli Stemmi