Una docente della Scuola Normale, Manuela Caiani, ha partecipato alla commissione di studio sul fenomeno della radicalizzazione e dell’estremismo jihadista, che pochi giorni fa ha presentato al presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e al ministro dell’Interno Marco Minniti i risultati delle proprie analisi in una relazione finale.

La commissione, organismo indipendente composto da 20 studiosi italiani di varie discipline (giuristi, sociologi, psichiatri, esperti di politica internazionale, giornalisti) ha lavorato per 4 mesi ed era presieduta dal prof. Lorenzo Vidimo.

Vari indicatori suggeriscono che il fenomeno della radicalizzazione jihadista nel nostro Paese, per quanto presente, non sia paragonabile né per dimensioni né per intensità della minaccia alla maggior parte dei Paesi del centro-nord Europa. Per ragioni che variano dall’aspetto demografico alle capacità del nostro sistema antiterrorismo, l’Italia non ha registrato né mobilitazioni di massa verso aree di conflitto, né massicce filiere di reclutamento, né attacchi della portata di quelli verificatisi altrove. Ciononostante, si possono osservare sul nostro territorio dinamiche che, pur su scala ridotta e con qualche specificità, replicano quelle viste in altri Paesi europei. In sostanza, anche in Italia è presente una scena jihadista informale.

“Abbiamo visto che la maggior parte degli esponenti della scena jihadista italiana non sono riconducibili a un profilo comune, divergendo tra loro spesso in maniera dal molto significativa dal punto di vista del background socio-culturale, familiare, del profilo anagrafico e del sostrato religioso”, spiega Manuela Caiani . “I processi di radicalizzazione e mobilitazione sono altrettanto eterogenei, anche se due luoghi, uno fisico e uno virtuale, abbiamo visto assumere un’importanza particolare nella diffusione e nell’assorbimento dell’ideologia jihadista, in Italia come in altri Paesi: le prigioni e il web”.

Quali sono le politiche da adottare per contrastare il fenomeno secondo la commissione di esperti? “Tra gli addetti ai lavori vi è una crescente consapevolezza dell’inadeguatezza di un’azione di contrasto basata esclusivamente sulla repressione – spiega ancora Caiani -. Per quanto le misure tradizionalmente utilizzate dall’antiterrorismo, quali arresti ed espulsioni, si siano dimostrate estremamente efficaci nel prevenire atti di terrorismo nel nostro Paese è ormai opinione largamente condivisa che tali strumenti debbano essere affiancati da politiche volte a prevenire la radicalizzazione stessa attraverso azioni non repressive. Un tipo di approccio pressoché inesplorato in Italia ma molto comune in molti Paesi europei, e infatti le Nazioni Unite e l’Unione Europea hanno ripetutamente esortato gli Stati Membri a creare programmi di prevenzione dell’estremismo violento (noti internazionalmente come CVE, Countering Violent Extremism—Contrasto all’Estremismo Violento)”.

Manuela Caiani è docente di Scienza Politica presso l’Istituto di Scienze Umane e Sociali della Scuola Normale, a Firenze. I suoi interessi di studio riguardano i processi politici e sociali in Europa e Stati Uniti, soprattutto in relazione agli estremismi e alle varie forme di violenza e terrorismo.