Il film come strumento di conoscenza. Uno strumento che Francesco Rosi ha utilizzato per raccontare l’Italia, i suoi mali atavici come la criminalità diffusa nel meridione, le sue contraddizioni più profonde come i tanti delitti e le tante stragi irrisolte del paese. Il regista napoletano, ottantacinquenne, recente vincitore dell’Orso d’oro alla carriera al festival del cinema di Berlino, ha ripercorso le tappe della propria esperienza di cineasta, dal dopoguerra a oggi, ai Venerdì del direttore della Normale.

Proprio sessant’anni fa è il primo ingresso di Rosi nel cinema, come assistente di Luchino Visconti nel film La terra trema. « Per me è stato l’apprendimento di tutto – ha raccontato Rosi – ho capito che cosa era il film, il film della realtà, fatto in quella pellicola con attori non professionisti. Per me è stato fondamentale iniziare il cinema con il neorealismo italiano, il neorealismo è un movimento profondamente epico, non solo estetico. Voleva sanare un paese uscito moralmente distrutto dalla guerra. Quell’insegnamento è stato fondamentale per il prosieguo della mia carriera».

Una carriera costellata da successi, come Le mani sulla città, che gli vale la palma d’oro a Cannes,

Salvatore Giuliano, secondo premio speciale della giuria al Festival di Berlino, Il caso Mattei, premio come miglior film al Festival di Cannes. Film che documentano la passione di Rosi per la realtà, per la spiegazione della realtà, quella di una Napoli soggiogata dalla camorra, della Sicilia che convive con la mafia, di una Italia piena di casi irrisolti.

«Io non ho mai fatto dei film a tesi. Ho sempre fatto film che offrissero l’occasione di un dibattito, perché secondo me lo spettatore di un film è un interlocutore. Molte pellicole provocano questo tipo di necessità di incontro, di scambio di idee, perché sono uno strumento di strapotere per quanto riguarda la conoscenza».

E oggi questo strumento di conoscenza non è così frequentato dal cinema italiano. «Prima di tutto, adesso a voler essere generosi si producono una settantina di film all’anno in Italia, di cui molti sono documentari.

Prima erano 250 all’anno. Poi il cinema in Italia è diventato molto intimista. Gli piace trattare tematiche domestiche. Ma devo dire che ultimamente stiamo riscoprendo l’amore per il cinema della realtà. Uscirà a breve un film tratto da Gomorra di Roberto Saviano. Un altro che si chiama Il divo, che prende spunto da un ritratto dell’onorevole Andreotti per percorre molti anni della politica italiana. Michele Placido farà un film sul Sessantotto. Un certo tipo di ritorno alla realtà dei nostri problemi esiste nel nostro cinema».

Questo cinema della realtà, ha del resto detto Rosi, è come il percorso di un fiume carsico: si fa vedere, poi si nasconde ed emerge un cinema diverso, come la commedia. «Ma ne abbiamo un bisogno estremo. Mi chiedo, per esempio, come mai, in un paese come il nostro, la televisione pubblica non senta il bisogno di proiettare con una certa continuità e in un orario anche per i giovani, un film come Ladri di biciclette per capire che cos’era l’Italia una volta. Queste esigenze, purtroppo, non mi pare che siano molto sentite».

Andrea Pantani