di Gabriele Beccaria

Cosa cerca un chimico nel XXI secolo? Molte cose. Per esempio la vita su altri pianeti. Intanto, sulla Terra, Vincenzo Barone, neoeletto direttore della Scuola Normale Superiore, cerca anche delle soluzioni pratiche. Per far funzionare meglio l’ateneo numero uno in Italia. E così, mentre studia come decifrare attraverso l’interpretazione dei segnali forniti dai radiotelescopi la presenza di molecole fondamentali sugli esopianeti, Barone studia nuove strategie per ampliare le opportunità di ricerca dei colleghi, sia scienziati sia umanisti, e allargare l’offerta dei corsi.

E’ una sfida – spiega – nel nome del cambiamento e nasce da un paradosso. «Sono il chimico più citato d’Italia, ma non voglio ricordarlo per presunzione. Piuttosto per sottolineare una questione essenziale»: le logiche quantitative con cui si giudica se una ricerca è buona o no – spiega – sono superate dalle logiche della scienza stessa. «Ranking e impact factor, per citare due esempi, nascono da procedure statistiche che funzionano sulle grandi strutture e sulla qualità media, ma che sui singoli possono generare risultati aberranti».

Professore, in pratica quali effetti si producono?

«Che la logica dei numeri, da sola, tende a premiare ciò che fa tendenza nella ricerca, ed è quindi di moda, e rischia di mettere in secondo piano i contributi più innovativi. Si finisce così per privilegiare la ricerca del risultato a breve e brevissimo periodo sul progetto di ampio respiro».

E con le scienze umane che succede?

«Che le cosiddette “Humanities” non possono essere certamente valutate in quel modo. Ci vogliono criteri diversi e più sofisticati».

Come dovrebbero, allora, cambiare i criteri di giudizio dell’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca?

«Partendo da un punto: i valori quantitativi definiscono valori medi. Inoltre oggi ci vuole un cambio di paradigma basato sul concetto della flessibilità».

Facciamo qualche esempio concreto?

«Vorrei che in un’istituzione di eccellenza come la nostra fosse possibile prendersi la responsabilità di scegliere, in autonomia, di volta in volta, il professore migliore per le nostre esigenze. E poi, dopo un periodo di tre anni, ci vorrebbe una valutazione esterna della scelta, per capire quali risultati sono stati raggiunti o, al contrario, sono stati mancati. Vorrei, quindi, regole più flessibili in entrata e regole rigorosissime in un secondo tempo».

Lo stesso deve valere per la ricerca?

«Sì. Nei Paesi avanzati si investe soprattutto sulla ricerca di livello medio-alto, che poi genera al suo interno eccellenze. Noi, invece, pretendiamo di finanziare (troppo poco) un ridottissimo numero di super-scienziati, tra l’altro individuati con criteri molto discutibili. Nella ricerca deve avvenire ciò che vale anche per la didattica: un sistema universitario integrato deve combinare l’esigenza di un’elevata qualità media di insegnamento con l’esigenza della formazione dei migliori».

Flessibilità, quindi, anche per i professori?

«A me piacerebbe poter pagare ai professori stipendi commisurati al loro livello, come fa, per esempio, l’Istituto Italiano di Tecnologia con i suoi ricercatori. Purtroppo, oggi, non possiamo farlo, se non, limitatamente, per i docenti stranieri».

Anche per i fondi sogna una logica simile?

«Non ne chiedo di più, ma vorrei più libertà nel gestirli».

Intanto il sistema universitario italiano è in declino: proprio l’Anvur denuncia il calo degli iscritti e quello dei fondi. Come si può rimediare?

«Penso proprio al ruolo delle Istituzioni di Eccellenza come la nostra all’interno del sistema universitario: sono realtà piccole, ma che devono sperimentare modelli innovativi. Due caratteristiche ci contraddistinguono: il numero quasi equivalente di studenti e dottorandi e, quindi, l’opportunità di esporre gli studenti ai temi più avanzati e, inoltre, la compresenza di discipline scientifiche e umanistiche che ci spinge a cercare linguaggi complessi e comuni. Al momento, però, siamo sottoutilizzati: ecco perché mi piacerebbe creare un modello integrato per sfruttare le sinergie sia con la Scuola Superiore Sant’Anna, sia con le Università di Firenze, Pisa e Siena».

Lei crede anche nella reciproca contaminazione tra cultura scientifica e umanistica: come si realizza?

«Per esempio attraverso la realtà virtuale: con il nostro sistema “Cave3D” visualizziamo e studiamo realtà eterogenee come l’antica agorà di Segesta oppure molecole e stelle. Vedere ciò che sfugge all’immaginazione genera processi cognitivi inaspettati».

© La Stampa TuttoScienze, 13 luglio 2016  Stampa130716