Un discorso a tutto tondo, un fiume di ricordi, di aneddoti, di cronache di lotte e di soddisfazioni, sempre rigorosamente in teatro. Dario fo incontra i giornalisti, poche ore prima di andare in scena a Colle Val d’Elsa con il suo spettacolo-lezione “La scienza del teatro” e si racconta.

di Serena Wiedenstritt

Domande basilari, quasi banali: perché sei qui? che ci fai a Colle? E il premio Nobel spiega di aver rinunciato a cachet molto più alti per venire ad incontrare i giovani talenti selezionati dalla Scuola Normale Superiore di Pisa, perché gli interessa, perché gli piace parlare con i ragazzi, confrontarsi ed ascoltare le loro osservazioni, calarsi in un clima dove il livello dell’attenzione e dell’interesse sono alti e si incontrano le generazioni a cui è affidato il nostro domani. Parte dalla dimensione del teatro come luogo complesso, che va affrontato e studiato da almeno cinque punti di vista, da quello storico a quello tecnico, che riconosce la sua essenza nel rapporto con il pubblico.

Pubblico che, secondo Dario Fo, non deve limitarsi a guardare, ad assistere alla rappresentazione ma deve instaurare una relazione di partecipazione vis a vis con il palcoscenico. Lo spettacolo ben riuscito, per il Nobel, è quello che “passa velocissimo”, che ti distoglie dal guardare l’orologio ogni cinque minuti oppure quello che ti fa uscire dal teatro angosciato, dopo aver rotto le condizioni di difesa che caratterizzano ogni singolo spettatore. Il segreto, insomma, così come lo enuncia Dario Fo in una calda mattina di luglio in mezzo alla campagna senese è che “l’attore deve coinvolgere il pubblico, deve far volare il tempo in sala e far muovere il cervello alle persone”. Per niente facile. Ma quando l’attore più completo del panorama italiano e non solo riprende la parola è per recitare l’Amleto, per rispondere alla domanda se si possa applicare il suo segreto anche alla Locandiera di Goldoni recitando i versi di Shakespeare “senza pestare, come si dice in gergo, senza fare troppi birignao, senza andare nel barocco, dove l’attore diventa gigione” spiega Fo.

Valori alti, semplicità e chiarezza sono i cardini del suo fare arte. E se il decennale del Nobel passa in sordina – “su queste cose per fortuna sono superficiale, nel senso che i premi li lascio in superficie e non mi riconosco assolutamente come premio Nobel, io non sono quel simbolo” – , quello che Fo ha più apprezzato del prezioso riconoscimento dell’Accademia Svedese è il fatto di “aver spiazzato tanta gente, che, come si dice in Lombardia, è rimasta con il culo per terra, oltre a tanti che hanno scoperto cosa ho fatto, le decine di opere che ho scritto e le decine di teatri che le rappresentano”.

L’attività politica che, insieme a talento e creatività, lo ha spesso messo nel bene o nel male ( a seconda dei punti di vista) in primo piano, continua come ai vecchie tempi: “Tre giorni fa ero a Napoli in una fabbrica che sta per essere chiusa, qualche giorno prima sono stato a Milano a recitare in un parco su cui vogliono costruire enormi grattacieli, poi in carcere e in un’università dove gli studenti stanno portando avanti la loro lotta, solo che adesso c’è meno visibilità e i media non parlano di questo tipo di iniziative” spiega Fo, ricordando la bellezza e l’importanza del Sessantotto anche oggi, che va di moda criticarlo.

Ancora una domanda sui Dico e sulla Chiesa – “che torna al latino, alla lingua dei dominatori” – e una sulla satira, “ che non è mai ben vista dal potere, perché i politici vengono infastiditi dalle critiche che vanno a segno, mentre tollerano gli sfottò, quelli della tv di oggi, quelli che non entrano nel cuore dei problemi”. Poi l’attore prende il suo panama bianco e si alza. L’intervista è finita.