Un saggio sull’antico di straordinaria attualità di Maria Luisa Catoni, ricercatrice della Scuola: “Schemata. Comunicazione non verbale nella Grecia antica”. NormaleNews pubblica una parte dell’intervento che Michele Battini, docente di storia contemporanea presso l’Università di Pisa, ha tenuto a Palazzo Strozzi, a Firenze, in occasione della presentazione del volume.

di Michele Battini

Gli Schemata indicavano valori, connotavano funzioni, costruivano identità: il buon cittadino, il guerriero valoroso, la donna virtuosa. Dunque implicavano questioni di pedagogia civica, di disciplinamento sociale, di natura morale e politica ai quali rinviava l’esigenza di conformarsi alle prescrizioni implicite: il comportamento in pubblico, l’educazione dei giovani in un periodo di crisi dei valori e della tradizione, la funzione politica delle arti mimetiche nella città.

Nelle opere plastiche, in pittura, nella danza e nel teatro schema assume così il significato di gesto e gli schemata svolgono una funzione di “cristallizzazione gestuale”, divenendo in tal modo un medium trasversale a molti diversi generi dell’espressione visuale, fissando i modi e le tecniche del corpo per esprimere determinati valori. Se nella pittura, nella scultura e soprattutto nella danza, gli schemata impiegati lasciano intravedere mutamenti di forma, questi ultimi – i mutamenti – denotano un cambiamento nell’etica; e, poiché la mousiké aveva un ruolo importante nell’educazione, gli schemata servivano anche a leggere le norme etiche di riferimento o a denunciarne l’eventuale violazione. Maria Luisa Catoni ci regala pagine deliziose sulla scena “della danza” nel finale delle Vespe di Aristofane: isolare e individuare in una commedia quelle figure definite tragiche, (ma che assomigliano, per molti aspetti, a quelle del dramma satiresco) costituiscono due operazioni aristofanesche che Šĸlovsĸij avrebbe definito di “straniamento delle cose e di complicazioni della forma”, che funzionano egregiamente a richiamare in vita le facoltà della percezione ottuse dall’abitudine. (…)

Il rapporto tra apparire ad essere, fu un nodo estremamente controverso nella vita culturale del v e iv secolo: quando guardando anche alla discussione tra i Greci, M.L. Catoni problematizza questa forbice, nel libro si avverte subito una sensazione di pericolosa attualità. Nel mondo antico, le rappresentazioni delle categorie sociali erano infatti codificate secondo schemata per cui un conflitto tra questi poteva portare alla luce anche il conflitto sociale e politico (e un conflitto di tal genere fu coinvolto nel processo di degrado della stessa democrazia classica). Le condotte etiche pubbliche finiscono così con il rivelare sia la classe sociale che le qualità morali dell’anima, o la provenienza sociale, quindi l’identità e il valore: per noi, dunque, gli schemata sono indizi certi e il loro sovvertimento può essere altrettanto rivelatore anche sul piano politico. A tale proposito M.L. Catoni cita (a p. 263) un brano esemplare dalla «Repubblica» di Platone: «possiamo infatti vestire di vesti lunghe e riempire d’oro anche i contadini, fare loro coltivare la terra a proprio piacimento; anche i vasai, farli sdraiare da sinistra a destra, bere a turni accanto al fuoco e godersela (…)». Non avere più lo schema da contadini o da vasai significava quindi non solo non essere più identificabili, ma neppure essere più tali, perché le vesti e le posture (o le tecniche del corpo – avrebbe detto Marcel Mauss) consentivano di visualizzare i gruppi sociali e garantivano lo Stato; lo schema era una funzione sociale nella città e la sua variazione costituiva una sovversione. L’autrice ci insegna insomma che alcune categorie decisive della sapienza politica classica possiamo dedurle e comprenderle anche da un vaso antico, o da un rilievo o da una statua.

Dunque lo studio dell’impiego degli schemata, nella città e nei più diversi ambiti di comunicazione non verbale, (lo schema è anche il mezzo con cui il pubblico riconosce il personaggio a teatro, il medico la patologia nel corpo, l’astronomo la stella, il botanico la pianta) conduce al cuore del problema politico della saggezza greca. Maria Luisa Catoni, a questo proposito, pone la questione decisiva, quella della divaricazione tra lo schema veridico, che consente il riconoscimento, e quello falso, che è mezzo di inganno. Il problema è l’ambiguità. La riflessione dei greci, tuttavia, spesso non ebbe a disposizione un linguaggio del tutto privo di ambiguità e pari, per rigore – ad esempio – a quello della geometria. Ragion per cui, l’autrice dedica, in modo sorprendente ma intelligente, un poderoso capitolo di esordio alla storia della geometria e delle definizioni di schema come figura geometrica (…).

Maria Luisa Catoni ci spiega che il carattere “visuale” della civiltà moderna differisce inesorabilmente da quello delle civiltà antiche, perché per noi la decrittazione di un messaggio visivo non può prescindere, tranne rare eccezioni, dalla parola. Questa tesi introduce un’ulteriore innovazione sul piano della storia politica del mondo classico. Jean Pierre Vernant, descrivendo «l’universo spirituale della “polis”», ha scritto invece che il sistema «implicava soprattutto la preminenza straordinaria della parola sugli altri strumenti del potere». (…) Il problema, insomma, era quello del controllo politico delle arti, pittura e scultura, certo, ma anche danza, poesia, etichetta, e di chi dovesse esercitare tale controllo. (…) Se Cassier ha dimostrato che Platone non ha combattuto contro la poesia in se stessa, ma la sua funzione creatrice di miti, Maria Luisa Catoni dimostra che Platone non fu connaisseur, ma non nutrì neanche un disinteresse per le arti mimetiche; il suo era però un interesse esclusivamente centrato sul loro carattere educativo e la loro funzione politica. Esistono schemata che rappresentano la virtù e schemata che rappresentano il vizio e, – cito Maria Luisa Catoni – «poiché il potere di schemi e canti sul piano etico è così vasto e profondo, appare naturale al filosofo la necessità di sottoporre al vaglio del legislatore la loro circolazione». Il problema che Platone pone nella Repubblica e nelle Leggi rivela un dato strutturale della cultura greca, ma anche un’attualità cogente per i moderni del xxi secolo.

Conclude l’autrice: «Il problema che si poneva Platone non ci è estraneo (…) ma è anzi osservabile in diversi contesti geografici, cronologici e sociali rilevanti (…), certo in termini diversi, ancora per noi, oggi». Si tratta, nell’ordine, di processi come l’influenza di certi tipi di spettacolo e di intrattenimento sul comportamento etico; la suggestione delle immagini e le reazioni emotive a queste; il ruolo dell’emulazione; la legittimità della rappresentazione realistica della violenza; la confusione tra realtà e finzione. La domanda che viene formulata nel sottotesto è questa: si devono “governare” questi problemi? E come? C’è un’attualità inattuale del pensiero antico sugli schemata?

E apparentemente, si tratta di problemi non distanti da quelli affrontati, solo qualche anno fa, da Karl Popper. I media del nostro tempo, privi di controllo etico, sono veicolo di codici violenti e di standardizzazione politica. Di fronte alle domande dei moderni, Maria Luisa Catoni allude di nuovo all’attualità politica dell’interesse centrale del pensiero platonico – il problema del significato – e anche del suo modo di pensare la questione della certezza nello Stato.

La riflessione sulla possibile funzione di un legislatore “platonico” nelle società moderne non può prescindere dalla differenza decisiva, costituita dall’esistenza della “sfera” della libera informazione e dall’esistenza della società civile nelle società moderne. Dall’inizio almeno del secolo xviii, le forme dell’informazione si sono intrecciate con quelle della sociabilità – quel mondo di giornali, gazzette, caffè, accademie del secolo xviii definito la sfera della “opinione pubblica”. Ma dal xviii secolo l’opinione o la voce pubblica hanno ricevuto anche valutazioni etico politiche molto diverse. La molteplicità e il pluralismo avevano effetti positivi per lo scozzese Thomas Carlyle, che per primo proclamò la necessità di affiancare la stampa, definendola il “quarto potere”, ai tre poteri tradizionali dello Stato costituzionale legislativo, esecutivo e giudiziario. Durante la Rivoluzione, dal 1789 al 1793, si passò dalla fioritura di molteplici voci libere, nell’informazione, nell’arte, negli spettacoli, ai pesanti interventi legislativi e repressivi del Bureau d’esprit public che si trasformò in un organo della dittatura giacobina. Le incertezze si sono ripetute, fino alle pesantissime invadenze dei sistemi totalitari nell’arte, nello spettacolo, nella stampa, nella radio. Anche se le prescrizioni relative alle arti furono più rigorose proprio nella democrazia del v secolo, nell’età moderna, un Platone molto diverso da quello che piace all’autrice si insediò al Sottosegretariato per la stampa e propaganda e al Ministero della Cultura Popolare, rispettivamente nel iii Reich e nello Stato totalitario fascista.

Esperienze così diverse hanno prodotto nella letteratura occidentale reazioni e posizioni intellettuali divaricanti: nella tradizione liberale, ad esempio, Parsons e Lasswell hanno sostenuto che una comunicazione pluralistica rimane nella democrazia una funzione essenziale di integrazione; nella prospettiva più critica di Adorno e di Wright Mills la comunicazione appare invece soprattutto produttiva di messaggi standardizzati e funzionali alla creazione di comportamenti conformi all’ordine. L’industria culturale sarebbe così una variabile democratica della “fabbrica del consenso” totalitaria, che oggi non necessita di alcun guardiano di platonica memoria, perché è capace di produrre da sé le procedure di disciplinamento, attraverso la logica interna dei suoi prodotti, lo scambio tra i livelli della realtà e della finzione, la confusione dell’essere e dell’apparire. Ma questo problema, che a noi sembra “moderno”, perché apparentemente legato all’altissimo livello tecnologico raggiunto dalle società occidentali, era invece già vivo e pressante nell’Atene del iv secolo, come ci insegna con straordinaria lucidità Maria Luisa Catoni.”

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