L’atteggiamento della chiesa nei confronti della guerra lungo tutto l’arco del Novecento. Questo il tema che Daniele Menozzi, docente di Storia contemporanea alla Scuola Normale, affronta nel suo libro appena edito, Chiesa, pace e guerra nel Novecento (il Mulino, pagg. 330, euro 25), una attenta e approfondita analisi che ripercorre le posizioni assunte dalla chiesa cattolica e dai suoi pontefici nel corso degli ultimi cento anni di fronte alla violenza bellica. A seguire pubblichiamo la prima parte dell’Introduzione al volume.

di Daniele Menozzi

Nel discorso pronunciato il 18 febbraio 2007, in occasione di uno dei tradizionali Angelus domenicali, Benedetto XVI commentava i passi dei Vangeli del giorno (Lc 6, 27; Mt 4, 44) relativi all’amore verso i nemici, presentandoli come «la magna charta della nonviolenza cristiana». Ed aggiungeva che «la nonviolenza per i cristiani non è un mero comportamento tattico, bensì un modo di essere della persona, l’atteggiamento di chi è così convinto dell’amore di Dio e della sua potenza, che non ha paura di affrontare il male con le sole armi dell’amore e della verità». Non si trattava di una generica valutazione. Il pontefice asseriva infatti che la nonviolenza costituiva un elemento vincolante per il comportamento dei credenti che intendevano conseguire la giustizia nelle relazioni sociali. Essa assurgeva così a cifra decisiva nella definizione della corretta forma di presenza dei fedeli nella vita collettiva.

Queste frasi non hanno ottenuto particolare risonanza mediatica: gli organi di comunicazione di massa erano in quei giorni protesi a registrare anche il più lieve sussurro che si levava dal mondo cattolico in relazione alle questioni, evidentemente giudicate di più gran momento, del matrimonio, della famiglia, delle convivenze. Eppure non sono considerazioni usuali e scontate nel magistero pontificio. Il richiamo alla nonviolenza veniva qui avanzato senza quelle cautele, distinzioni e restrizioni che erano solitamente presenti nei non frequentissimi casi in cui l’insegnamento cattolico la prendeva in considerazione. Ad esempio nella costituzione conciliare sulla chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes (1965) l’elogio verso quanti rinunciavano alla forza nella rivendicazione dei loro diritti, era stato subito circoscritto da una precisazione: «purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità». Una frase che, di fatto, ne inficiava ogni concreta efficacia. Più recentemente nel discorso ai giuristi cattolici del 6 dicembre 1980 Giovanni Paolo II, pur affermando che il Redentore aveva insegnato e praticato il principio della nonviolenza, aveva anche aggiunto che su tale principio non era ancora possibile costruire l’ordine giuridico della società. Anche quando – come nella lettera apostolica del marzo 1985 per la giornata internazionale della gioventù – Wojtyla sembrava proclamarne l’intima coerenza con il messaggio evangelico, la nonviolenza era vista soltanto come uno strumento che poteva avvicinare la realizzazione dell’oggettivo codice morale detenuto dalla chiesa, che veniva evidentemente presentato come un obiettivo a ogni altro superiore.

Non si può ovviamente dire se, con le parole di Benedetto XVI, ci troviamo di fronte a un effettivo mutamento nell’insegnamento pontificio; anzi l’insistenza con cui papa Ratzinger ripropone nel suo magistero come norma costitutiva e fondante per l’organizzazione della vita civile una legge naturale di cui la chiesa sarebbe l’autentica depositaria e interprete, fa dubitare che egli intenda scalfire uno dei più consolidati paradigmi che la teologia cattolica ha tradizionalmente collegato al diritto di natura: la liceità del ricorso all’uso delle armi per la tutela dell’ordine sociale, in particolare per l’autodifesa di un singolo o di una comunità politica sottoposti a ingiusti attacchi. Persino nel recente volume papale su Gesù di Nazareth l’analisi delle beatitudini non individua un qualche nesso tra costruzione della pace e comportamenti «pacifici» del credente. Del resto il vigente Catechismo della chiesa cattolica proclama inequivocabilmente la liceità per i governi di provvedere alla legittima difesa con la forza militare e il dovere per i cittadini di accettare gli obblighi imposti dalla difesa nazionale. Dunque l’appello alla nonviolenza non appare un elemento coerentemente e costantemente sostenuto dall’attuale insegnamento ecclesiastico.

Resta tuttavia il dato che – sia pure in un testo isolato e meramente parenetico – si è fatta strada nel magistero pontificio una nitida affermazione del legame tra giustizia sociale e azione nonviolenta. Si mette così in questione una concezione millenaria – quella moralizzazione del ricorso alla forza armata che va sotto il nome di dottrina della «guerra giusta» – che, nonostante aggiustamenti, aggiornamenti e revisioni, è stata, variamente, ma continuamente, riproposta nel cattolicesimo romano dalla svolta costantiniana del quarto secolo. In effetti a partire da questa data la gerarchia ha sostenuto che la pratica sociale del conflitto bellico costituisce un legittimo canale – sia pure da disciplinare, in modo da renderlo conforme all’etica cristiana – per conseguire la giustizia nei rapporti tra gli uomini. Come è stato possibile l’emergere, sia pure erratico, di una concezione che si allontana da questo consolidato terreno dottrinale?

Se ci poniamo in una prospettiva storica, il discorso di Ratzinger non appare il frutto di un improvviso ed estemporaneo scarto, ma risulta piuttosto l’esito di lenti slittamenti determinatisi nel corso di un intenso dibattito che ha attraversato il cattolicesimo del Novecento, secolo che – almeno sotto questo profilo – appare assai più complesso delle semplifìcatorie caratterizzazioni sintetiche con cui, dai più diversi punti di osservazione, lo si è spesso voluto definire. Questo volume intende ripercorrere proprio il lungo e frastagliato dibattito che ha portato nel corso di circa cento anni la chiesa cattolica a svuotare – o almeno a elaborare una retorica discorsiva che tende a svuotare – la guerra della legittimazione religiosa a essa assicurata da una lunghissima tradizione teologica e da una concreta prassi ecclesiastica.

Prende infatti le mosse da un’analisi della famosa Nota dell’agosto 1917 in cui Benedetto XV, dichiarando la Grande Guerra «inutile strage», sembrava incrinare una delle strutture portanti della teoria della «guerra giusta». Se infatti in quel conflitto – la prima guerra moderna – si era palesata una tale capacità distruttiva che faceva cadere la proporzionalità tra il mezzo (il ricorso alle armi) e il fine che a esso era tradizionalmente assegnato dalla teologia morale (conseguire il ristabilimento di un giusto ordine nei rapporti tra gli uomini), era ancora possibile fornire una giustificazione etica alla pratica bellica? Come vedremo, si può dubitare che il pontefice intendesse portare fino a queste conseguenze la sua dichiarazione dell’inutilità della conflagrazione; ma la questione era stata sollevata. Si iniziava così nella cultura cattolica un accidentato cammino che avrebbe trovato infine esito nelle ripetute prese di posizione con cui Giovanni Paolo II, davanti alle guerre apparse sullo scorcio del secolo, ha asserito l’inammissibilità del ricorso alla religione per giustificare l’impiego della forza delle armi. Non era un riconoscimento – lo si è già ricordato – per la prassi nonviolenta, né era l’abbandono della concezione che riteneva possibile ricondurre i conflitti all’interno della morale cattolica; ma era un passo decisivo per sottolineare quel nesso inscindibile tra religione e pace che inevitabilmente finiva per gettare interrogativi sulla possibilità di una legittimazione della guerra da parte della chiesa […]

(dall’Introduzione a Chiesa, pace e guerra nel Novecento, pp.7-10).