Dall’articolo di Mauro Moretti in “L’Università di Napoleone. La riforma del sapere a Pisa”, pubblichiamo alcune pagine significative sulla vita dei primi anni della Scuola, dalla fondazione napoleonica al riassorbimento nella Università Granducale

Sui primi normalisti si posseggono informazioni non scarse. Quadri sinottici prodotti dall’amministrazione universitaria, e compresi nella documentazione della mostra, forniscono i dati anagrafici dei venticinque borsisti – tutti toscani, dopo che era stato risolto in questo senso, nel 1811, il dubbio insorto sulla possibilità di estendere il reclutamento ai giovani dei dipartimenti italiani, anche per aumentare il numero delle domande, che furono comunque almeno quaranta -, assieme all’indicazione dell’indirizzo di studi prescelto – undici studenti di Lettere e quattordici di Scienze, uno dei quali «Risiede a Parigi per studiare la Zootomia» -, e ad alcune note personali: un allievo, Sebastiano Doveri, aveva lasciato la Normale già nel gennaio 1814 essendo stato nominato reggente di Matematiche nel Collegio di Livorno, e due altri allievi, Patrizio Puccioni e Massimiliano Stecchi, entrambi ‘letterati’, risultano espulsi dalla Normale rispettivamente il 19 febbraio ed il 12 giugno del 1814, negli ultimi, disordinati e convulsi mesi di esistenza della Scuola, dopo la partenza di Elisa da Firenze il primo febbraio 1814 e l’arrivo delle truppe napoletane. L’attenta analisi della composizione di questo selezionato corpo studentesco compiuta dalla Tomasi ha messo in risalto la presenza, fra i normalisti, di vari giovani provenienti da famiglie legate al pubblico servizio, ed in generale alle élites locali; e se la scelta, come lamentava il Gran Maestro, era stata probabilmente dovuta anche «à la faveur, au liaison de famille, en un mot au patronage et aux recommandations», l’approdo in Normale non era stato solo un modo di sfuggire al servizio militare ;

la Scuola Normale pisana ebbe nell’insieme una sua fisionomia professionale, che rispondeva sia allo stato degli studi in Toscana (molti normalisti provenivano dalle Scuole Pie di Firenze, dove la presenza di Canovai e Inghirami aveva rafforzato l’insegnamento delle matematiche), sia all’attesa del pubblico: essa fu più specialistica e più orientata verso lo studio delle scienze di quella parigina .

Gli allievi della Normale erano sottoposti, almeno sulla carta, ad un rigoroso regime disciplinare, sul quale ci si è soffermati con una attenzione non priva di ironico distacco. Gentile ne dava conto con una certa efficacia:

I normalisti pisani, come i loro confratelli di Parigi, erano raccolti in un convitto, vestiti di un’uniforme, obbligati a un regolamento di disciplina minuto e pedantesco, che aveva certo carattere militare conforme al genio di chi aveva volute queste scuole. Regolata l’ora della levata, d’estate e d’inverno. Prescritte le ore dello studio, delle preghiere; fissa quella della rientrata, come dell’uscita. Tutti i lumi dovevano essere spenti nelle camere a 11 ore in punto. Non è detto a che ora tutti gli alunni dovevano essere addormentati!

La forte preoccupazione di ordinare e controllare la vita quotidiana di questo microcosmo esclusivamente maschile – l’articolo 62 del regolamento del Pensionato accademico proibiva alle donne l’accesso all’edificio – è in effetti visibile nei vari testi ed abbozzi di testi che hanno per oggetto il funzionamento concreto del Pensionato e della Normale. Alcune disposizioni sono rigidamente prescrittive – interessanti, ad esempio, quelle che riguardavano le pratiche religiose, con la previsione di tempi minimi e massimi a queste riservati -, e vanno ricondotte anche al tentativo di prevedere una precisa casistica comportamentale ed una scala crescente di punizioni per evitare di «lasciare all’arbitrio la determinazione de’Castighi». Questo orientamento comportava l’introduzione di cavillose distinzioni fra vari gradi di ‘mancanza di rispetto’, disubbidienze, protrarsi di ritardi, e gradazioni fra la «disubbidienza continua ed ostinata» e l’«insubordinazione abituale», che si accompagnavano del resto alla sanzione del più ampio potere discrezionale riservato alle autorità accademiche.

La tenuta di questo apparato regolamentare si dimostrò, comunque, piuttosto precaria, incrinandosi rapidamente di fronte al precipitare della crisi politica. L’insofferenza dei giovani nei confronti della divisa, e la richiesta di vacanze anticipate erano in fondo manifestazioni secondarie del venir meno della principale ragione che aveva assicurato l’iniziale buon ordine nella vita della Normale: come Gerbi scriveva esplicitamente a Sproni già il 4 febbraio 1814, «la massima parte [degli studenti] non era fin qui trattenuta che dal timore della Coscrizione».

Il 18 novembre 1814 dalla Cancelleria della R. Università veniva redatta una circolare indirizzata agli «Alunni della soppressa Scuola Normale»:

S.A.I. e R. essendosi degnata di accordare agli Alunni della soppressa Scuola Normale la facoltà di proseguire i loro studj in Pisa come Alunni del Collegio della Sapienza con un mensuale sussidio di scudi otto fino alla riapertura del detto Collegio, mi affretto a renderla intesa di questo tratto della Sovrana beneficenza, onde Ella possa, volendo, profittarne. Debbo altresì farle noto, che a forma degli Ordini Sovrani la solenne apertura degli Studj avrà luogo il 25 corrente giorno di S. Caterina, e che il giorno precedente saranno chiuse le prime rassegne dell’imminente anno scolastico .

I normalisti venivano riassorbiti, con qualche non trascurabile riguardo, nella ripristinata Università granducale, nella quale, abolite le facoltà napoleoniche, si tornava all’antica organizzazione degli studi. E proprio all’ordinamento degli studi costruito per gli allievi della Scuola a cavallo fra Normale e facoltà converrà accennare in conclusione. Derivato da quello parigino del 1810, il percorso formativo per i normalisti pisani era basato su un organico rapporto con i corsi universitari, meglio definito per Scienze, e su apposite attività interne, guidate da ‘ripetitori’, ma centrate sul lavoro personale e sull’attività degli allievi; ed è questo l’aspetto che maggiormente sollecita – a rischio dell’anacronismo, ed al di là del fatto che in fondo si trattò di un esperimento appena abbozzato, di un disegno non tradotto in atto – l’evocazione di analogie magari non ben definite, ed una sensazione di continuità, di un vitale lascito programmatico, in chi conosca, od abbia sperimentato, la tradizione didattica della Scuola pisana. Marino Berengo, in apertura di un suo importante saggio sui primi tempi della Normale italiana, osservava a ragione che

Il pericolo dei centenari, e delle loro frazioni cronologiche, è quello di riferirsi a una data, e quindi a una congiuntura formalmente stabile e certa, ma in realtà poi disgiunta dalla vita e dalla storia reale di un’istituzione, di un movimento, di un processo storico. A questo rischio è esposta anche la Scuola Normale .

E tuttavia a simili suggestioni non è sempre facile sottrarsi del tutto, come mi sembra mostrino anche alcune pagine molto note di Giovanni Gentile, che contenevano fra l’altro una breve esposizione del regolamento napoleonico:

Gli alunni di lettere spiegavano e analizzavano i classici, proponendosi scambievolmente le difficoltà eventuali, e discutendone insieme. Leggevano composizioni, traduzioni, tesi di filosofia, di storia ecc., e il Ripetitore (ce n’erano quattro per le due sezioni), che dirigeva queste conferenze, affidava per turno ai singoli alunni l’esame critico degli scritti presentati dagli altri: esame ragionato e scritto, che poi veniva anch’esso discusso e giudicato in comune. Gli alunni di scienze facevano qualche cosa di simile per i loro studi, ragionando insieme delle difficoltà incontrate nelle lezioni, ripetendo esperienze, ecc. Ogni tre mesi con certa solennità si faceva un esercizio generale per entrambe le sezioni; nel quale si leggevano i migliori lavori scritti su temi assegnati quindici giorni prima .