Pubblichiamo integralmente l’articolo di Mauro Moretti, I primi anni della Scuola Normale italiana sotto la direzione di uno dei più illustri intellettuali del nostro paese, uscito inNormale.Bollettino dell’Associazione Normalisti“, anno I, n. 2, 1998.

Nel considerare le vicende storiche della Normale a partire dalle discussioni sulla sua riorganizzazione, subito dopo l’unità, occorre evitare un errore di prospettiva, quello di affrontare la questione da un punto di vista esclusivamente ‘pisano’ e di concentrarsi solo su una storia istituzionale interna.

In realtà, le date e i documenti parlano chiaro: alla Scuola pisana si mise mano in un momento delicatissimo di riordinamento del neonato sistema universitario nazionale, momento condizionato anche da particolari contingenze politiche. Erano i giorni dello stato d’assedio in Sicilia, di poco precedenti lo scontro di Aspromonte; e Pasquale Villari, che insegnava storia a Pisa, scrivendo al rettore Silvestre Centofanti proprio di questioni universitarie il 17 agosto 1862, non

mancava di sottolineare la coincidenza:

Matteucci tra la Villa Regina e il ministero scrive lettere e abbozza progetti. Adesso lavora sulla Scuola Normale che pare voglia assolutamente aprire a Novembre. Se non cade, speriamo che faccia qualche cosa. Mi fece leggere il nuovo regolamento della Scuola Normale; ma io dovetti dirgli che non andava ed egli se ne persuase. [ … ] Lavora anche per un riordinamento delle Università. Speriamo bene. Ma prima delle Università, v’è ora qualche altra cosa da riordinare.



Nella concitazione del momento, e vista l’impossibilità di ottenere risultati più cospicui sul terreno legislativo, il ministro Matteucci decise proprio allora di troncare un iter parlamentare ormai lungo di progetti e dibattiti sulla formazione universitaria degli insegnanti destinati alla scuola secondaria, riformando per decreto il regolamento dell’unica istituzione speciale già esistente in questo campo e provvedendo alla sua direzione con la nomina di quel Villari che si è già visto suo dubbioso interlocutore.

La procedura avrebbe avuto largo seguito nella storia universitaria italiana, segnata da una permanente difficoltà nel legiferare in materia di istruzione superiore: del resto lo stesso Matteucci aveva avuto, nel luglio, la delega del parlamento per la predisposizione di un nuovo regolamento universitario, emanato il 14 settembre 1862.

Degli orientamenti generali e di alcune disposizioni di questo regolamento occorre tener conto per inquadrare le scelte fatte poche settimane prima per la Normale. Nell’ambito di una linea di razionalizzazione centralistica del sistema — concentrazione di uomini e risorse, tentativo di creazione di ‘poli’ forti —, e di una scelta piuttosto netta a favore di un indirizzo ‘professionalizzante’ degli studi superiori, Matteucci aveva introdotto la distinzione fra università primarie (Torino, Pavia, Bologna, Pisa, Napoli, Palermo) e secondarie, attribuendo alle prime una funzione di guida e di controllo degli studi universitari — fra l’altro solo gli atenei primari erano sede degli esami di ammissione alla Normale —.

L’esplicita finalizzazione delle facoltà di lettere, con rigidi piani di studio fissati dal regolamento, alla formazione di insegnanti per le scuole secondarie era complementare alla scelta, maturata anche per ragioni di bilancio, di mantenere una sola istituzione-modello con la stessa funzione professionalizzante e strettamente connessa, sul terreno didattico, alle facoltà pisane: Pisa, ateneo primario, avrebbe del resto assunto in quegli anni la configurazione di studio ‘normale’ anche in altri settori, ad esempio in quello dell’insegnamento agrario.

La soluzione della Scuola unica con convitto — ma si ricordi la distinzione poi prevista dal regolamento Matteucci fra alunni convittori ed alunni aggregati, i secondi appartenenti alla sezione di scienze fisiche e matematiche; e la posizione complessivamente subordinata della sezione di scienze nella prima organizzazione della Normale postunitaria va ricondotta al diverso peso disciplinare nell’ambito del curriculum liceale, che richiedeva un maggior numero di insegnanti di lettere — non era stata l’unica ad essere presa in considerazione. De Sanctis, da ministro, pensava ad una formula universitario-seminariale per la preparazione dei professori, con sussidi e corsi speciali, ma senza convitto.

La convivenza degli allievi, sull’esempio francese ma anche dei colleges inglesi, venne invece sostenuta con energia da Matteucci, che inizialmente aveva comunque proposto una ripartizione dei corsi normali superiori su quattro sedi, articolata per indirizzo di studi, in diretto collegamento con l’insegnamento universitario. La spinta all’unicità della sede prese corpo nella discussione al Senato del disegno di legge, all’inizio di aprile del 1862, anche grazie agli interventi di Lambruschini ed Amari; il testo elaborato dal Senato prevedeva fra l’altro la durata triennale del corso di studi ed il riconoscimento del diploma normalistico nei concorsi liceali come titolo di preferenza solo nel caso di parità di condizioni con altri concorrenti.

Sul disegno di legge prese allora posizione, con uno scritto dalla tormentata vicenda redazionale, Pasquale Villari. Convinto della centralità dell’insegnamento secondario nel formare la «coltura generale, [ … ] il pensiero di tutta la nazione»,Villari concordava sull’urgenza «di dare allo Stato buoni professori di liceo»; la legge così

come veniva profilandosi — un compromesso fra la formazione universitaria di tipo tedesco e quella collegiale di tipo francese — gli pareva però discutibile su alcuni punti. In particolare, Villari sosteneva l’opportunità di una durata quadriennale del corso normalistico, ritenendo insufficiente anche l’adozione di un accorgimento poi effettivamente presente nel decreto Matteucci, quello di “richiedere la conoscenza delle materie insegnate nel primo anno universitario” per l’ammissione alla Scuola. Villari accennava poi all’opportunità di nominare due direttori degli studi, uno per sezione, e soprattutto alla necessità di attribuire un più certo e visibile valore al diploma normalistico.

Nominato direttore, Villari — che non amava il soggiorno pisano e desiderava poter rientrare presto a Firenze — cercò di adoperarsi nella dirczione già indicata nel suo articolo. Confidando nell’appoggio di Michele Amari, ministro della pubblica istruzione dal dicembre 1862 al settembre 1864, Villari si occupò dell’elaborazione di alcune importanti modifiche regolamentari, tradotte in due decreti del novembre 1863.

Il primo stabiliva durata del corso normalistico da tre a quattro anni, con l’introduzione di un primo anno detto ‘preparatorio’ che consentiva l’ammissione di candidati in possesso della semplice licenza liceale; il secondo riguardava la creazione di una commissione permanente ristretta in seno al Consiglio direttivo della Scuola, che sulla base del decreto Matteucci era composto dal rettore, dal direttore, dall’economo, e da tutti i professori ordinari della facoltà di lettere e di matematiche, con l’aggiunta degli ordinari di fisica e di chimica, risultando un organismo pletorico e di difficile convocazione. Vennero poi accolte le indicazioni villariane riguardanti il completamento ed il potenziamento della facoltà di lettere di Pisa, ma altre iniziative di Villari non ebbero successo.

Il direttore non riuscì, infatti, ad ottenere l’ingresso automatico degli allievi, a conclusione del corso, nell’insegnamento secondario, né ad assicurare ai normalisti forme di esenzione dal servizio militare. Villari, comunque, si adoperò molto a vantaggio degli allievi, e degli assistenti interni alla, Scuola — inizialmente uno per sezione, con la successiva aggiunta di un secondo assistente per la sezione letteraria -, tanto da considerare l’impegno a favore di questi ultimi uno degli elementi dei quali tener conto nel designare il suo successore alla direzione.

Occorrerebbe ricostruire la cronaca minuta di un triennio segnato da gravi difficoltà materiali: ai vincoli severi imposti dal bilancio, che Villari cercava di aggirare con vari espedienti, salvaguardando almeno — con il concorso degli enti locali — le spese per la biblioteca, si aggiungeva la tensione esistente con uomini e ambienti dell’ateneo granducale, in particolare con il vecchio direttore della Scuola, ed ora economo, il canonico Ranieri Sbragia, rinforzato nella sua posizione dalla lettera del decreto Matteucci, che non attribuiva al direttore degli studi alcuna diretta funzione amministrativa.

Secondo la testimonianza di Villari, lo Sbragia si adoperava per creargli ogni genere di problemi, cercando di sollevargli contro gli studenti, o rendendo la vita difficile al lettore di lingue, protestante: ostruzionismo motivato dalla decisa linea di laicizzazione seguita da Villari, che mirava a far uscire dalla Scuola «sostenitori ardenti della libera ragione, e del libero esame». Fu comunque anche a causa della sperimentata robustezza di questa resistenza, per non inasprire rapporti già difficili, che Villari sconsigliò la nomina dell’ebreo Alessandro D’Ancona a direttore della Normale; con una ulteriore modifica del regolamento Matteucci, che all’articolo 35 stabiliva che il direttore degli studi fosse scelto dal ministro fra gli ordinari della facoltà letteraria, si decise nel 1865 a favore del matematico Enrico Betti.

Il decollo della nuova Normale era stato complesso e faticoso. Per l’anno accademico 1862-63 su 31 concorrenti per le varie categorie di alunnato ne erano stati approvati 20; nel 1863-64 i concorrenti erano stati 15, gli ammessi 8; nel 1864-65 su 27 concorrenti solo 6 erano entrati alla Scuola. Villari, nella relazione predisposta nel 1864 sull’andamento della Scuola, sottolineava la giusta severità negli esami di ammissione, ribadiva la finalità professionale della Normale — «Noi ci siamo persuasi, che il nostro scopo sia tutto nel dare al paese dei buoni Professori» -, ma rilevava anche i soddisfacenti risultati scientifici dei normalisti, che si presentavano ai concorsi nazionali per i posti di perfezionamento all’estero e li vincevano, e pubblicavano le loro tesi, giudicate “assai favorevolmente dalla stampa”.

A questi risultati egli aveva concorso con un notevole impegno sul piano organizzativo, oltre che personale — informazioni raccolte direttamente dall’ Ecole parigina, inviti per conferenze, sollecitazione ad una intensa collaborazione didattica con le facoltà pisane anche per quel che riguardava le lezioni interne alla Scuola, per le quali reclamava dal ministero una specifica retribuzione -, consolidando così una istituzione scolastica, ma contribuendo anche a fondare una specifica tradizione di studio.