Per Gianni Fochi, ricercatore di chimica generale e inorganica alla Normale, rinunciare al nucleare ha significato per il nostro Paese una grossa perdita economica. Un Excursus sul dibattito in Italia e, a seguire, sogni e bisogni sul fronte energie rinnovabili.

di Gianni Fochi

«Questo fa capire quanto sia ingenuo non volere in Italia centrali nucleari, quando le abbiamo ai confini, dalla Francia alla Slovenia». L’ha detto Aldo Pinchera, endocrinologo dell’università di Pisa e coordinatore degli studi clinici dell’Unione Europea sulle conseguenze di Chernobyl, intervistato da Anna Buoncristiani per La Stampa (19 aprile 2006, inserto TuttoScienzeTecnologia, pagina 3). Lo studioso si riferiva al fatto che le conseguenze sanitarie del disastro, più che in Ucraina, si sono avute soprattutto nelle vicine Bielorussia e Russia meridionale, a causa dei venti che soffiavano in quel periodo.

L’Italia si comporta insomma da quasi vent’anni come il mandante di qualcosa che, ritenuto sporco e rischioso, commissiona ad altri, vuotando in questo modo il suo portafoglio senza mettersi al sicuro da eventuali effetti sgraditi. La grossa perdita economica è in realtà l’unica conseguenza reale, perché la grave insicurezza dell’impianto di Chernobyl era lontanissima dagli standard della tecnologia nucleare moderna e dai criteri di gestione occidentali.

«Come mai» si chiede, in un libro pubblicato da 21mo Secolo, il fisico Giovanni Carboni dell’università romana “Tor Vergata” «un solo grave incidente (Chernobyl) in oltre 50 anni di utilizzo dell’energia nucleare fa più impressione dello stillicidio di vittime legate all’attività estrattiva, alla produzione e al trasporto dei combustibili fossili? […] Dopo Chernobyl cominciò a farsi strada nell’opinione pubblica il convincimento che il rischio associato alle attività nucleari fosse notevolmente maggiore di quello delle attività energetiche “tradizionali”, nonostante le analisi fondate sui fatti oggettivi facessero pendere la bilancia del tutto a sfavore di queste ultime. Questi timori si manifestarono in tutti i paesi, ma in nessuno il mutamento di opinione fu così radicale e irrazionale come in Italia, tanto da rendere il nostro paese, da allora, una vera e propria anomalia nel panorama internazionale».

La risposta che Carboni si dà sarebbe interessante (il libro citato ha per titolo “Il paradosso del nucleare in Italia” ed è composto dagl’interventi di vari autori, tutti meritevoli di lettura). Qui è però più in tema quanto nella stessa opera scrive Claudio Regis, vicecommissario dell’ENEA; definendo indiscutibile la sicurezza intrinseca d’un reattore moderno, egli dà qualche suggerimento contro il rischio ipotetico in caso d’attacco terroristico. I nuovi progetti — egli afferma — mirano ad almeno sessant’anni di funzionamento: una durata che renderebbe ben tollerabile il costo della collocazione nel sottosuolo.

Sotto terra, come si sa, devono essere depositate le scorie radioattive: questo è un altro aspetto che fa molta paura, e l’indecorosa conclusione della vicenda di Scanzano Ionico l’ha ben dimostrato. Si consiglia di leggere in proposito quanto ha scritto Leonello Serva, direttore del Servizio Geologico d’Italia. In sintesi, egli paragona il mancato deposito italiano agli altri esistenti nel mondo da molti anni. Per esempio, nel Nuovo Messico (Stati Uniti) dal 1999 più di ventimila metri cubi di rifiuti radioattivi sono già stati raccolti in un sito rispetto a cui quello progettato a Scanzano è ancora migliore.

Si tratta in tutti e due i casi di giacimenti di salgemma, ma quello americano è racchiuso da materiali rigidi (marne), mentre quello italiano si trova confinato all’interno d’argille, che essendo plastiche, garantiscono d’autosigillarsi se avvenissero fenomeni tettonici (faglie). Del resto il sale, spiega Serva, se è lì da circa sette milioni d’anni pur essendo solubilissimo in acqua, offre la massima garanzia che appunto l’acqua (capace di trasportare nella biosfera gli elementi pericolosi) non l’ha mai raggiunto dopo la sua formazione.

SOGNI E BISOGNI

di Gianni Fochi

Le risorse non sono qualcosa di fisso: è l’uomo a renderle tali, sfruttando grazie alla sua intelligenza ciò che la natura mette a disposizione. Lo ripete da anni Carlo Stagnaro dell’istituto Bruno Leoni di Torino. Un tempo erano considerati risorse energetiche il legno e il carbone: il petrolio era soltanto una curiosità. Dopo oltre un secolo di sfruttamento, anche quest’ultimo prima o poi dovrà essere superato, almeno per il semplice motivo che non è inesauribile; ma già ora il lievitare del suo prezzo sta suscitando timori e domande ansiose.

Sulla carta esistono molte alternative. Una trentina d’anni fa, per esempio, quando l’OPEC dette una stretta ai rubinetti dei pozzi, fra i grandi gruppi chimici riprese fiato la ricerca sulla produzione di carburanti sintetici a partire dal carbone. Si tratta della tecnologia Fischer-Tropsch, nata prima della seconda guerra mondiale nella Germania che non riusciva a importare il petrolio per far andare i suoi mezzi terrestri, navali e aerei, e più tardi applicata ampiamente dal Sudafrica per resistere all’isolamento economico-politico: non sarebbe male che i libri di storia, quando illustrano le missioni dei caccia Messerschmitt e parlano dell’Apartheid agli studenti di liceo, accennassero al ruolo che la scienza vi ha avuto. Per amarla davvero non si può idealizzarla: bisogna conoscere i contributi che essa ha dato e dà sia al bene sia al male.

Quando si parla d’energie alternative, ci si riferisce di solito a quella solare o a sue forme indirette, come l’idroelettrica, l’eolica o quella ottenuta da biomassa. Stupisce che alcune di queste siano amate dagli ambientalisti: aumentare parecchio la produzione agricola, come sarebbe necessario per rendere la biomassa una fonte consistente, sarebbe tutt’altro che ecologico; contro le torri eoliche si sono già pronunciati, in nome dell’ambiente, esponenti del Club Alpino Italiano (v. Lo Scarpone, dicembre 2003, pagina 7) e d’Italia Nostra, mentre per la Gran Gretagna è stato calcolato che il fabbisogno energetico nazionale richiederebbe di coprire di torri a pale un’area grande quanto la Scozia.

Franco battaglia, professore di chimica dell’ambiente all’università di Modena, in un recente libro pubblicato da 21mo Secolo ha scritto che la fonte eolica s’è rivelata una grande delusione: la Germania, con le sue quindicimila turbine a vento (qualcosa come una ogni cento metri dalle Alpi alla Sicilia, se si trattasse dell’Italia) è riuscita a coprire solo il tre per cento delle sue necessità; soltanto la Danimarca, con investimenti enormi nell’eolico, è riuscita a superare per quella strada il dieci per cento del suo fabbisogno, ma tuttavia, se dovesse ottemperare al protocollo di Kyoto, dovrebbe tagliare più d’ogni altro stato le sue emissioni di gas serra. A questo proposito può essere interessante il ragionamento dell’inglese Philip Stott: per costruire una sola torre eolica servono cinquecento tonnellate di cemento e cento d’acciaio, la cui produzione (a cui andrebbe aggiunto il trasporto) emette oltre seicento tonnellate di biossido di carbonio.

Quanto all’energia solare diretta, nel libro citato Battaglia ha scritto che la tecnologia fotovoltaica sembra promettente e merita l’attenzione della ricerca, ma per un periodo ancora lungo è impensabile che i suoi costi, ora proibitivi, la rendano un’alternativa seria ai combustibili fossili.

Purtroppo, sull’onda emotiva del disastro di Chernobyl, i politici nostrani si spinsero ben oltre il risultato del referendum del 1987, decidendo di chiudere le nostre centrali nucleari: lo fecero contro il parere d’autorevoli scienziati e anche contro quello di Romano Prodi, allora presidente dell’IRI. Ora Prodi si troverà a capo del governo: seguirà quella sua apprezzabile opinione, ridando il via al nucleare, o piuttosto accetterà la volontà dei Verdi che fanno parte della sua risicata maggioranza? Gl’italiani, come con un certo stupore i giornalisti stanno rilevando, si sono ormai resi conto che il dover comprare tanto petrolio e tanta energia elettronucleare da Francia, Svizzera, Germania e Slovenia fa pagare le utenze domestiche il cinquanta per cento in più della media europea.

Vari fisici, come Emilio Picasso, Carlo Bernardini, Renato Angelo Ricci, e ingegneri, come Paolo Fornaciari e Ugo Spezia, da anni stanno rivolgendosi direttamente alla gente per spiegare che in Italia abbiamo bisogno d’impianti nucleari. La maggioranza che ci ha governato negli ultimi cinque anni ha avuto il merito di riaprire questo discorso; speriamo che esso prosegua fino a realizzazioni concrete. Infatti l’esaurimento della risorsa energetica ora prevalente, il petrolio, se non è dietro l’angolo, è comunque da metter nel conto per l’avvenire. Nell’attesa che l’intelligenza umana trasformi in risorsa qualcos’altro, le centrali nucleari potranno garantirci energia per non pochi decenni.