La giornalista e scrittrice ha aperto la stagione 2006/2007 de “I venerdì del Direttore”con una conferenza sulla sinistra italiana dal dopoguerra ad oggi.

di David Ragazzoni

“Volevamo costruire, quando avevo diciassette, diciotto anni, un’Italia diversa, un’Italia socialista, in cui fosse finalmente possibile essere tutti più uguali: l’uguaglianza sognata è stata la molla delle speranze della storia di quegli anni e di tutta la mia generazione”. Questo lo sguardo, carico di memoria e gravido di futuro, con cui la giornalista e scrittrice Miriam Mafai ha inaugurato nel pomeriggio del 13 ottobre la nuova stagione 2006/07 de “I Venerdì del Direttore”, portando nell’Aula Bianchi della Scuola Normale un tema tra i più delicati nell’attualità politica degli ultimi mesi: “La terza via e il futuro del socialismo italiano”.

Di fronte alla lunga, difficile gestazione del Partito Democratico, con cui si dovrebbe dare un volto nuovo e unitario alla sinistra italiana e alle sue due voci più significative (DS e Margherita), e al dibattito accesosi di recente sulle pagine del quotidiano di cui è editorialista e co-fondatrice, la Mafai ha compiuto un viaggio a ritroso negli ultimi sessant’anni di storia del socialismo europeo. Uno scavo “parziale”, come ella stessa ha affermato, in quanto compiuto sul doppio binario della Storia e della biografia personale, ma proprio per questo penetrante più di qualsiasi cronaca o ricostruzione storiografica: è la voce di chi interpreta gli scenari attuali e futuri avendone vissuto in prima persona, e sulla propria pelle, gli eventi che li hanno resi possibili.

Per tutta la conferenza, e nel dibattito successivo, si affiancano e s’intrecciano nelle parole della Mafai due Italie: quella odierna, in cui “con stanchezza e senza entusiasmo” si cerca di riportare a nuova vita l’ideale di un socialismo riformista, e quella dell’immediato dopoguerra, in cui la fine dell’esperienza totalitarista e del “sacrificio dell’uguaglianza” era riuscita a generare una politica fatta di slanci, di grandi passioni. Elementi che la giornalista di Repubblica non coglie più nelle logiche partitiche di oggi: “Il Partito Democratico? Mi pare che sia come un matrimonio, prospettato da ormai lungo tempo, tra due fidanzati esausti l’uno dell’altra. I partiti non nascono tutti i giorni, ma solo in momenti storici decisivi, in cui diviene inevitabile prendere una posizione: nascono dall’impeto, e anche dall’orgoglio, che io sinceramente finora non ho visto”.

Ad alimentare questa convinzione, vi è il ricordo della propria esperienza personale e politica, ricostruita nelle sue pieghe anche più intime: dall’infanzia, in cui alle canzoni al pianoforte col padre si alternano le discussioni a tavola sulla guerra di Spagna, all’adesione precocissima, già negli anni del liceo, al Partito comunista, alla difficile condizione di donna militante, per lo più ebrea, quale ci è consegnata dalle pagine del suo romanzo, più volte ristampato, “Pane nero” (1987). Le speranze, le attese di quegli anni, che ella sintetizza nelle parole di Montanelli, inviato del Corriere della Sera, all’indomani dei fatti d’Ungheria – “il socialismo e la libertà sono una religione nuova di cui ancora non abbiamo idea ma che ben presto ci conquisterà” – la portano a riconoscere i meriti, ma soprattutto gli errori, compiuti dagli intellettuali del proprio partito in uno dei momenti decisivi della “loro” storia: il mancato appoggio alla rivolta ungherese in considerazione degli accordi di Yalta; la pesante sconfitta a Praga, dieci anni dopo Budapest, dell’ipotesi riformista di un socialismo che fosse veramente democratico; il progressivo rarefarsi della possibilità di un’amministrazione socialista in seguito alla crisi del welfare state nel nuovo mondo globalizzato.

“La morte del comunismo, conclusasi nell’89 in Unione Sovietica, è in realtà una lunga agonia: l’ideale di un socialismo che coniugasse libertà e uguaglianza ha prodotto come esito non il superamento, ma nel migliore dei casi la regolamentazione del sistema di produzione capitalistico”. E’ questo un periodo ormai concluso della nostra storia politica? Si tratta di un’Italia che non ci appartiene più, che possiamo solamente contemplare con distacco come l’angelo di Paul Klee che procede con lo sguardo rivolto all’indietro? La Mafai è convinta proprio del contrario: oggi più che mai vi è la necessità di lavorare al rinnovamento di un socialismo capace di coniugare uguaglianza e libertà, giustizia e democrazia. Riallacciandosi alle diverse posizioni espresse da voci italiane e internazionali sul tema della “terza via”, Miriam Mafai indica un modello vincente nel “socialismo liberale” propugnato da Giuliano Amato: un socialismo che non ponga alternativa tra il sacrificio della libertà e quello della giustizia, ma che si configuri in antitesi ai fattori di sfruttamento, ai populismi che sotto il velo dell’emancipazione intendono stabilire nuove oppressioni.

Un paradigma politico che, se vuole realizzarsi nel futuro, deve sapere imparare dagli errori del proprio passato: “Dobbiamo evitare –conclude la Mafai – ogni residuo di velleitarismo e di radicalismo, come quando nel ’68 la parola d’ordine era non “Vietnam libero!” ma “Vietnam rosso!”, e ci si opponeva ad ogni tentativo di riforma universitaria fondata sul merito: la meritocrazia, e lo sostengo in una Scuola che fa di questa parola la propria bandiera, va tutelata, riconosciuta, promossa. Si tratta di un punto essenziale per il successo di un socialismo che voglia essere davvero democratico”.