“Dante e il suo secolo”
. Così si intitola il tema di ammissione che il diciottenne Giosuè Carducci scrisse nel 1853, per il concorso di ammissione alla Normale di Pisa. Uno scritto finora inedito, in cui Carducci dimostra con argomentazioni lucide e approfondite l’inscindibile legame tra la poetica di Dante e la cultura del suo tempo. Scarica il manoscritto in formato PDF

Chiunque ricorra col pensiero su le vicende di popoli che più gloriosi passarono su la terra, incontrarà alcune epoche indeterminate in cui sembra che quei popoli riunissero potentemente le forze della loro intelligenza, quasi che sdegnosi dal troppo angusto spazio concesso loro dalla natura volessero lasciare immortal monumento di se a chi doveva occupare il luogo da loro abbandonato.

Ed in vano e filosofi e storici si studiarono d’investigare le cagioni di questo arcano sprigionarsi di questo sublime e subito fiammeggiare della divina parte dell’uomo. Ed in vero chi riporta le cagioni di questo straordinario fenomeno alle politiche condizioni, chi verrà ad accordare il secol XIV col secolo di Leone ed il secolo di Pericle a quello di Luigi XII fecondi come di gloria artistica e letteraria così ancora di lunghe guerre e feroci, come mi spiegheranno coloro che dal largo e riposto vivere fanno resultare lo sviluppo dell’umana intelligenza? Un fatto però si può quasi che stabilire; quello cioè che le opere veramente di genio sorgono indipendentemente da ogni impulso in quelle età dei popoli che più confinano con la barbarie, mentre le opere squisitissime per gusto e per arte sorgono a punto allora che la vita di una nazione comincia a declinare, e per lo più all’ombra di una potente protezione. E a questa osservazione rispondono a punto le epoche in cui sorsero i due più grandi genj del mondo, Omero e il divino Allighieri.

Vero è che noi non possiamo stabilire confronti tra Omero e il suo secolo, perchè siamo incerti fin dell’età che diceano fosse codesto primo portento del genere umano. Ma sì il possiamo col secolo dell’Alighieri, e ci studieremo di farlo parlando della reciproca influenza che il secolo operò sull’Alighieri, e l’Alighieri sul secolo.

L’Italia nel secolo XII discioltasi dal feudalismo e ordinatasi quasi che tutta a Comuni, tra il finir del sec. XIII e il principio del XIV agitavasi in dura e sanguinosa libertà. Era quella l’età delle forze vergini che affannosamente chiedevano un esercizio, era quella l’età dei forti voleri che cercavano un bene e smarrivano il sentiero in traccia di esso e spesso abbracciavano il male, e scontentati dal bene ottenuto presto si affaticavano in cerca di un altro: era quella l’età delle anime vigorose che nuove nel vivere libero tal ne [senti]vano un ardentissimo amore che lo guarda[vano] gelose e più presto che perderlo lo insanguinavano e lo spargevano di triboli. Onde e le vigorose lotte tra le fazioni, e la lunga ferocia di guerre fraterne, e coi fatti più magnanimi, più neri misfatti e giornalieri †…† e grandi che si calcano a vicenda. Questa lotta continua di vizi e di virtù, di bene e di male preparava sviluppava educava le anime grandi che poi doveano solitarie in se stesse interrogare la loro arte e renderne verissima la imagine nelle loro opere. E di queste anime io ne conosco due, quella di Dino Compagni e quella di Dante Allighieri.

†…†ora soave ora sdegnoso con cui questi due fattori ritoccano ed esplorano le piaghe delle patria, quelle tremende parole d’ira che hanno per chi quelle piaghe o apre o inacerbisce, quel dolce vagheggiare l’idea di un viver libero o riposato che tanto spesso e tanto efficace ritrovate in quelle pagine loro, quell’entusiasmo che essi dimostrano per le opere egregie e per i principij da essi prediletti non ce li mostrano figli ingenui di quel secolo nell’odio e nell’amore potentissimo, di quel secolo affamato dietro al bene e che per giovanile inquietudine nel poetare mai giunsero? Quegli odi municipali tra città e città non li vedete voi nella Divina Commedia, in cui tutte le città italiane poteron trovare un’ingiuria da scagliare all’altra, come tutte le città greche trovarono in Omero una lode? Quei caratteri d’immensa forza che con due parole fanno correr il gelo per l’ossa a chi legge l’inferno li poteva Dante immaginare in altro secolo che il XIV? Quegli angelici caratteri del Purgatorio o del Paradisio non ci rammentano l’epoca in cui visse il Serafico d’Assisi? Io per me credo che se Dante non fosse vissuto nel secolo XIV la poesia italiana non avrebbe scoperto che questo del poema il più originale il più caratteristico che mai imaginasse mente mortale.

Ed ora †…† il secolo di Nicola Pisano, il secolo di Arnolfo, il secolo di Giotto, il secolo cioè della più soave semplicità, della più pura idea del bello, della più schietta maestà, il secolo insomma dell’arte tutta cristiana, quello in cui Dante immaginava la Vita nuova, le Rime, il Purgatorio, il Paradiso. Notisi la differenza che corre tra una sacra imagine di Giotto ed un’altra di Tiziano, notisi la differenza delle pitture dantesche o di quelle d’Ariosto, si notino i diversi colori del Canzoniere di Cino e di Petrarca e del Canzoniere di Tasso, ed io credo che sarà †… † convenire dell’influenza che ebbe su Dante l’arte, o meglio, il sentimento cristiano il quale nel sec. XIII e XIV splendea purissimo nei cuori anche a canto delle più vigorose passioni. Prendete la imagine di Beatrice e dalle Rime e dal Purgatorio, mettetela a lato di alcuni sonetti del Cinquecento, a lato dei ritratti di Alcina e di Armida e anche di quella cara imagine di Sofonia, e vi renderete subito accorti che nel secolo in cui Dante scriveva i pittori prima di delineare il volto di una vergine s’inginocchiavano a pregare, e che nel secolo di Ariosto e Tasso eran modelli ai ritratti delle sante i volti delle prostitute.

E quel desiderio non sempre laudabile con cui Dante va dietro alle più astruse questioni scientifiche, quello (mi si perdoni l’aggressione) quella forza enciclopedica di cui tanto volentieri infarcisce il divino poema, non la deve egli al secolo della Scolastica, egli il discepolo del Latini autore del Tesoro e del Tesoretto? Non la sentite voi la Scolastica nella compassata architettura del divino poema, e nella prova della perfezione di Beatrice che nella Vita nuova levò dai calcoli numerici? Ed a chi deve, voi mi domanderete, quell’ampio disegno quel concetto del [viaggio] pei tre regni dei morti? Alla sua mente quasi tutto, io risponderei, accontentandomi d’aggiungere che quello era il secolo della fede imaginosa, delle mistiche credenze, il secolo in cui †… † e fantastico trastullo erano i cosiddetti misteri, e in cui davasi a spettacolo al popolo fiorentino adunato alle rive d’Arno la vista dell’Inferno.

Fin qui ho cercato di mostrare l’influenza che ebbe sull’Alligheri l’indole dei tempi suoi, Prima di passare a trattare dell’influenza del poema di Dante sui contemporanei, non sarà forse inutile rivolgere uno sguardo retrospettivo sul primo secolo della nostra letteratura il quale finisce dove Dante comincia. Argomento della prima poesia italiana è l’amore: di amore è la prima canzone italiana che conosciamo; d’amore sono i versi di Federico imperatore, di re Enzo, del lor segretario e dei poeti siciliani. E l’amore cantato in questi versi non è l’amore violentemente passionale e sensuale che ci diletta nelle odi di Anacreonte, che ci disgusta nei versi amorosi di Orazio, che rapisce nelle elegie di Tibullo, che ci trafigge l’anima nel sublime episodio di Didone. E’ un affetto mite, verecondo, religioso, talvolta galante, talvolta filosofico: caratteri suscitati dalla religione cristiana, dalla cavalleria e dalle corti di amore. E così seguitò la nuova arte dell’affetto tenero e suave col Notaro di Lentini, spassionato e talvolta sublime con Guido Guinicelli, immaginoso e filosofico col Cavalcante, tutto lirica e animato con Dino Frescobaldi. Alfine comparve Dante con la Vita nuova e col Canzoniere di cui dice Muratori basterebbe esso solo anche senza la Divina Commedia a far del suo autore un poeta di primo ordine. Egli evitando l’arido e il vuoto, rimescé tutte le diverse maniere liriche dall’ora rimodificandole con quella veste tutta spirituale ed animata ch’ei sa’ dare a tutte le cose sue, e veniasi a bene perché egli s’era uno che quando amore spirava notava , e da quel modo ch’ei detta dentro andava significando.

Né la prosa era dimenticata dagl’Italiani che vissero avanti il divino poeta, se non che troppo meschine ad argomenti son quelle prose per poterne far menzione. Mi contentarò di ricordare

La ingenua prosa di Ricordano Malispina, i fioretti si S. Francesco angelico libro che in certi punti mi arieggia dello stile della vita nuova, o la più robusta scrittura dei sec. XIII e XIV, la Cronaca di Dino Compagni scritta almeno contemporaneamente alla Divina Commedia. Ed anche qui veniva Dante a rinnovare la forma: ed egli originale sempre, originalissimo pur nello stilo di Vita Nuova si studiò nel Convito di dare alla nostra prosa andamento latino. E perché parcamente compiacque a questo suo disegno, veniasi a bene: e il Convito è la prima prosa italiana nobile per gravità di stile e per maestà di forma.

Ecco dunque l’Allighieri originale rinnovatore della lirica e di prosa italiana. Né io dirò che alcuna altra parte di poesia rinnuovasse nella Divina Commedia. Nella Divina Commedia egli è unico ritrovatore di un arte italiana e moderna non più adoperata, egli è creatore, creatore, io dico, di una epopea, ancora di un’epopea religiosa, politica, morale e filosofica. Che cos’è la riunione dei popoli Greci intorno a Troja per vendicare l’ingiuria di un loro re, che sono i travagli da Enea sostenuti per fondare un regno onde doveva devenire il popolo romano, dinanzi ai destini di umanità, dinanzi alle pene alla afflizione alla beatitudine delle anime immortali? Qual poeta qual retore gli diede quella perfettissima e nuova forma di poema? Qual altro poeta espresse affetti pari a quelli di Francesca da Rimini e del Conte Ugolino? Buonarroti scolpì mai statua, dipinse mai quadro di terribili figure che agguagliasse potente la metamorfosi dei lauri, la descrizione del canto III d’Inferno e la imagine di Lucifero.

Qual poeta più utile alla patria alla religione ai costumi?

E pure forza è confessare che egli non agì sovra il suo secolo con tutta quella influenza che si potea derivare da tanta poesia. Vero è che stimolati dal suo esempio sorsero prosatori, sorsero poeti, e tutti eleganti e spiranti tutti quella pura semplicità che è il carattere di quel bel secolo della nostra letteratura! Prosegui[ron] fino la lirica nuova immaginosa e corretta ma sempre nella sua antica complicità, fin che non venne Francesco Petrarca: a tal bellezza di affetti e pensieri qual ebbe di rado la lirica greca e latina . E la prosa gia avvezzata da Dante al latino paludamento Giovanni Boccaccio adornò di tutta la classica bellezza, e forse anche ne contorse le membra, perché atte divenissero alle nuove vestimenta. Splendidissimo triumvirato, Allighieri Petrarca e Boccaccio sorsero tutti in un secolo. E’ però da dolersi che questo secolo non ritenesse molto del carattere dantesco, e che prosatori e poeti non si volgessero tutti a quello scopo che Dante segnò ai futuri Italiani. Cecco d’Ascoli Fazio degli Uberti ed un Frezzi ritentarono la forma dantesca; si eressero cattedre pel commento di Dante: ma forse il suo secolo non lo intese, e troppo presto studio si piacque della letteratura da trastullo. Non sorsero troppo presto Petrarca e Boccaccio a rapire gl’Italiani con la magia di verace bellezza per un sentiero che forse non menava al vero scopo della letteratura. Vero è però che i tre Villani primi storici di caratte ed italiano, e gli aurei libri del Pandolfini e del Passavanti mostrano con quanta grazia d’elocuzione e d’eloquenza sapesse quel secolo esprimere cose che tornano utili alla società ed alla patria. Ma ahimé, lo riperto, troppo presto si piacque l’Italia della letteratura da trastullo, e per molti e molti secoli non si conobbe l’età di Dante che per le opere di Petrarca e Boccaccio contaminate da una folla d’imitatori servili.

Giosuè Carducci

(trascrizione dal manoscritto di Lucia Boschetti)