Adriano Prosperi è professore emerito della Scuola Normale, in cui ha ricoperto per molti anni la cattedra di Storia dell’Età della Riforma e della Controriforma. Il suo paese natale, nel comune di Cerreto Guidi in provincia di Firenze, si chiama Lazzeretto, perché vi furono portati i contagiati di Empoli durante la peste del 1630. Forse anche per questo Prosperi al tema della peste ha dedicato alcune pagine illuminanti dei suoi numerosi saggi, tra cui queste che vi proponiamo.
 

Pisa, 18 marzo 2020.


Il testo, contenuto in "Studi storici", rivista trimestrale della Fondazione Gramsci, risale al 2018 e si intitola  “Manzoni, la peste, la Rivoluzione, il Terrore”. La tesi di questo lavoro è che dietro la peste del Seicento, descritta nel Fermo e Lucia e nei Promessi Sposi e infine nella Storia della colonna infame, Manzoni vedeva in realtà un’altra peste, quella che aveva infettato le menti di un popolo intero nella Francia del Terrore. In tutte le diffusioni di virus pestilenziali, quali per il cattolico Manzoni potevano essere anche le idee giacobine, si insinua a un certo punto nella collettività la «sindrome del complotto», l’ossessione del nemico nascosto come una forza capace di scardinare la società e le regole del diritto. E Prosperi ci ricorda che molto più pericoloso di un qualunque virus, può essere l’uomo che ritiene che vi sia una congiura ai suoi danni.

 

Di Adriano Prosperi

        La peste da realtà di fatto, epidemia terrificante, minaccia la più temuta nella società del passato, oggi è passata a diventare una metafora del male. Forse solo provvisoriamente: le riserve di bacilli conservate nei laboratori della guerra batteriologica sono lì a smentire l’ottimismo dell’annuncio di una eliminazione totale della peste in quanto tale. Ma non c’è bisogno di ricorrere al celebre romanzo di Albert Camus  per riconoscere quale pesante brandello di realtà si porti dietro la parola anche quando la si promuova al livello della metafora. Tuttavia questo non toglie che esista una frattura fra i nostri tempi e quelli, per esempio, di Alessandro Manzoni. Allora, pur allontanandosi la minaccia della peste oltre i confini dell’Europa occidentale, le improvvise ondate di mortaltà epidemica come quella del colera non solo garantivano alla parola la permanenza dell’ antico alone di  terrore ma facevano tornare d’attualità la credenza  in forme di disseminazione del malanno praticate da nemici occulti. Fin dall’arrivo del bacillo del colera asiatico nella Sicilia del 1837 la diffusione dell’idea di una congiura di micidiali poteri segreti (i carbonari per il governo borbonico, i Borboni per la popolazione) determinati a mettere in atto lo sterminio dell’intera popolazione con la diffusione di preparati mortiferi, accompagnò le fiammate successive di altre epidemie per tutto il secolo. Di volta in volta, cambiarono i protagonisti del complotto immaginario: dopo il 1860, l’accusa riguardò il governo della nuova Italia, al quale la popolazione del napoletano attribuì il disegno di disseminare artificialmente il colera. Basta rileggere le pagine de “I viceré”, il grande affresco di Federico De Roberto, dedicate  a rievocare le folle in fuga dalle città appestate  e i commenti circolanti sull’origine del malanno: «I più credevano al  malefizio, al veleno sparso per ordine delle autorità; e si scagliavano contro gl’ ”italiani”, untori quanto i Borboni…».

   Peste come ossessione collettiva, idea diffusa di una congiura di micidiali poteri nascosti: accanto alla realtà delle epidemie ci fu anche allora, come nel ‘600 de “I promessi sposi”, una dimensione mentale della peste. Era questa che  teneva il campo e provocava sommosse e conflitti politici e sociali. Viene  in mente una volta di più la massima di Marc Bloch:”I fatti storici sono, essenzialmente, fatti psicologici”. E vale anche la sua fondamentale osservazione: “Constatare l’inganno non basta. Bisogna scoprirne i motivi”.  Una regola seguita da Manzoni. Di fatto, non fu la realtà del pericolo materiale costituito dalla peste quella su cui attirò  l’attenzione dei suoi lettori. Quella che viene messa in evidenza accanto alla marcia dell’epidemia nel capitolo 31 dei Promessi Sposi – un capitolo tutto e solo storico, un vero modello concreto della concezione manzoniana della storia come racconto di verità –   è il modo in cui alla realtà del pericolo incombente corrisponda una lentissima presa di coscienza da parte della popolazione e delle autorità. La chiusa del capitolo riassume con una sintesi fulminante proprio questo secondo percorso, tutto mentale:

     «In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può piú mandare indietro”.

      Non è un caso che uno scrittore come Manzoni, destinato a dedicare tanta e così decisiva attenzione alla lingua del suo paese, fosse dotato di una speciale sensibilità per la vita delle parole. Qui isola la parola “peste” e ne segue il percorso come di una realtà vivente che nasce, cresce, si modifica, si installa in mezzo alle pratiche sociali, nel segreto delle menti: è una lezione memorabile. Guardare attentamente una parola è istruttivo.  E c’è sempre una buona ragione per leggere  questo passo dei “Promessi sposi” con tutta l’ attenzione che merita. Oggi come e più di allora è fondamentale avere presenti i meccanismi che nascondono, deformano o allontanano la percezione di quel che si cela nell’addensarsi di un’ombra o di una deformazione intorno al significato reale di una parola. Abbiamo imparato a conoscere parole capaci di  decidere il destino di intere masse umane: ieri “ebrei”, ma anche “negri” o “streghe”;  oggi “clandestini”, “migranti”, “islamici”. Vedremo più avanti quale minimo comun denominatore sia stato capace di unire  tutte queste parole.

Ora, quel passo di Manzoni è un modello di come la sua intelligenza dei fatti mentali guizzi come una luce improvvisa, illuminando i meccanismi psicologici individuali e collettivi che nascondono, deformano e allontanano la percezione di una realtà difficile e minacciosa e se ne difendono partorendo mostri.

      Una cosa intanto è chiara: qui si tratta di un duplice inganno, quello del nascondere la realtà e quello dell’immaginare un disegno nascosto, un nemico oscuro. La verità viene ignorata e quando, alla fine, diventa inevitabile vederla, viene accantonata e deformata da qualcos’altro. Chi tende l’inganno, forse un potere – il potere per definizione, quello politico? La questione della menzogna e in generale della finzione aveva da tempo preso l’aspetto del machiavellismo, quello che tormentò i commentatori del Principe di Machiavelli nell’età della Controriforma davanti a problemi come questi:   può un principe cristiano ingannare il nemico con finzioni di pace mentre prepara la guerra? Può mentire impunemente o almeno simulare intenzioni pacifiche e dissimulare l’organizzazione dell’aggressione militare? Discussioni intense che misero a prova le risorse della teologia e quelle della politica. Bisogna dire però che se seguissimo questo filo ci potremmo forse avvicinare al ‘600 dei Promessi sposi ma ci allontaneremmo sicuramente dalla comprensione  del pensiero di  Manzoni: il quale  non fu né machiavellico né antimachiavellico. Ma fu intensamente attratto dalla riflessione sul potere e sul male . E la conclusione del capitolo 31 parla di un inganno in  cui tutti (o quasi) cadono ma che non ha nessun preciso responsabile.  Prima della peste come malanno fisico c’è una epidemia d’altro genere, una convinzione senza fondamento alcuno ma che conquista le menti, detta le certezze, nasconde la realtà, rende inefficaci le voci di chi, come il medico Ludovico Settala, dice la verità senza piegarsi alle convinzioni generali – come pure aveva fatto al tempo della causa di stregoneria contro Caterina Medici. Il potere politico stesso cade nell’errore dopo avere contribuito a ingannare il popolo:   il governatore di Milano nasconde la notizia dell’epidemia incipiente e distrae il popolo con l’indire festeggiamenti solenni e processioni per la nascita dell’erede al trono di Spagna. Ma, se la sua condotta è biasimevole, «ciò che, lasciando intero il biasimo, scema la maraviglia di quella sua condotta, ciò che fa nascere un’altra e più forte maraviglia, è la condotta della popolazione medesima, di quella, voglio dire, che, non tocca ancora dal contagio, aveva tanta ragion di temerlo».

     La legge che governa il mondo era stata denunziata dal Manzoni dell’Adelchi come violenza mascherata da diritto: “Una feroce forza il mondo possiede e fa normarsi dritto…Non resta che far torto o patirlo”. Potere come violenza  dunque; anche violenza alla verità. La vicenda dei “Promessi sposi” mette di continuo davanti al lettore esempi di come la menzogna attraversi e condizioni la vita dei protagonisti: una menzogna come inganno deliberato o come adulterazione del vero, mescolanza di vero e di falso.  Fermo Spolino – poi Renzo Tramaglino – Lucia Mondella sono due contadini analfabeti , vittime predestinate di ingiustizie , campioni di cosa poteva accadere a chi nasceva da quella parte della società. A loro danno la cultura scritta diventa strumento di sopraffazione e di inganno.  Basta a un don Abbondio qualsiasi  rifugiarsi nel “latinorum” per eludere la domanda di verità e ingannare i poveri. Nel passaggio dai toni radicali di condanna e di rifiuto   giansenistico del mondo che dominano nell’Adelchi a quelli pacatamente riflessivi e realistici del romanzo con la sua indagine sul ”guazzabuglio” del cuore umano la questione non si risolve ma si complica. La scelta di due contadini analfabeti come protagonisti indica quale sia il punto di vista  a partire dal quale Manzoni  vuole raccontare il rapporto tra potere e giustizia.

   E’ qui che si colloca il contrasto tra la lettura manzoniana del processo agli untori e quella di Pietro Verri. Alla tesi illuministica e riformatrice che indicava nelle leggi sbagliate di un’epoca barbarica la radice dell’ingiustizia Manzoni opponeva la visione del pessimismo cristiano di un’umanità come “legno storto” (definizione kantiana), capace di fare il male e capace soprattutto di cadere vittima di convincimenti sbagliati, di rappresentazioni mentali deformate e nefaste . Non la tortura prevista dalle leggi penali ma qualcosa di più profondo e pericoloso aveva portato al processo agli untori e al suo terribile epilogo. Quella critica illuministica delle leggi vigenti che ai tempi di Manzoni aveva ancora una sua attualità si è allontanata dalla prospettiva culturale di un presente col logorarsi  della fiducia nella ragione e della spinta rivoluzionaria al cambiamento politico e sociale: né l’umanesimo cristiano sembra godere di miglior salute. E questo fa sì che si riaffacci nella cultura occidentale  una nuova attualità della pratica della tortura: giuristi americani di tendenza “liberal” la propongono (e polizie ubbidienti la praticano) come strumento necessario davanti alle minacce di un mondo alieno, fatto di terroristi e di ribelli. Solo la tortura può far parlare il nemico di tutti, il terrorista che sa i nomi dei suoi compagni e conosce il luogo dove è nascosta una ipotetica bomba atomica posta nel cuore della città. Ha scritto Marina Lalatta:

« Alan Dershowitz nel suo libro sul terrorismo del 2002 ammette che “l’esser disposti a uccidere un bambino innocente indica la disponibilità di fare qualunque cosa pur di ottenere il risultato necessario. Di qui la china in cui si finisce per precipitare”. Ma “dal comprensibile timore di precipitare per questa china non consegue - continua – necessariamente che non possiamo prendere in considerazione l’uso dell’inflizione di un dolore non letale, se il suo uso deve essere limitato da principi morali accettabili”.

  Ecco allora che da un orizzonte come questo si riesce a guardare oltre Pietro Verri  e a comprendere perché  nella cultura dominante del ‘600 il processo agli untori  e la loro fine terrificante fossero visti come la prova che la  società cristiana era minacciata da terribili nemici  – eretici e streghe, creature diaboliche dotate di poteri sconosciuti,  ladri e assassini, oscuri congiurati contro il bene comune che bisognava catturare, far confessare  e far morire fra gli strazi delle torture. A quel tempo la vicenda del processo degli untori aveva conosciuto una grande risonanza. E lo si era conosciuto grazie alla circolazione di opuscoli stampati e venduti sulle piazze e nei mercati che raccontavano storie paurose di delitti immensi e di processi mostruosi. Fu così che il processo milanese - di cui resta finora a noi solo la versione ridotta rimastane nel processo difensivo del cavalier Padilla e reperita da Pietro Verri -  conobbe una circolazione e una fama speciale già all'epoca in cui era avvenuto. Se ne trova conferma in un trattato di un gesuita di metà '600, Giacinto Manara, dedicato alla lettura di quei confratelli delle Compagnie di giustizia che si occupavano del “conforto cristiano” dei condannati a morte nelle loro ultime ore. Manara voleva persuadere questi collaboratori del boia della necessità che i nemici della società cristiana scontassero con enormi sofferenze e con la morte il male che avevano fatto: solo così avrebbero pagato il male fatto e  dato alla folla degli spettatori un esempio indimenticabile delle conseguenze del delitto. Poi, pentiti e perdonati per i loro peccati, sarebbero stati giustiziati accettando sofferenze e morte in  sconto delle pene del purgatorio e offrendo agli astanti un esempio di come deve morire un cristiano. Tra i casi di colpe orribili e di pene meritate, il gesuita citava proprio il caso degli untori. Raccontava di avere letto il resoconto  a stampa del processo contro il barbiere milanese Mora, accusato  di avere  fabbricato «unguenti da infettare le persone di peste, acciò morissero et egli facesse maggior guadagno».  Delitto orrendo, fortunatamente scoperto e punito con tutte le sofferenze meritate:  «A lui [Gian Giacomo Mora] e a’ suoi eguali complici furono meritamente infrante le ossa, et attortigliato alli raggi della ruota durò vivo sei hore; hebbe gran tempo di fare atti di pentimento di falli passati e di meritare tolerando così penoso tormento, e fece meritare assai li religiosi che furono assistenti». Tutto questo era narrato in un volume "che va atorno stampato". Se andò attorno allora può darsi che nei cataloghi di biblioteche antiche ne sia rimasta una copia.  E speriamo che questa traccia serva a mandare finalmente avanti la ricerca su di un caso che fu evidentemente molto importante anche per i lettori del tempo suo.

Galleria video e immagini