Pubblichiamo una lettera che una ex allieva della Normale, Eloisa Morra, ha scritto al quotidiano la Repubblica, per la rubrica di Concita De Gregorio “Invece Concita”. Eloisa  attualmente è assistant professor in letteratura italiana all’Università di Toronto; è stata allieva del corso ordinario della Scuola (2007-2012) e ha conseguito un PhD in Lingue e Letterature Romanze a Harvard.

 

Da “la Repubblica” di venerdì 12 gennaio 2018 (Repubblica120118)

“Contro la retorica dei cervelli in fuga”

“Ho sempre detestato il termine “cervello in fuga”. Ho studiato in Italia e negli Stati Uniti, al momento insegno letteratura e studi visuali in un’università canadese. Leggere parecchie delle lettere in questa rubrica, tra cui quella di Luca dall’Olanda, mi ha spinto a fare i conti con i sentimenti contrastanti provati di fronte ai racconti di chi parte e chi resta. Sentimenti poco politically correct: fastidio, noia, desiderio di passare ad altro. Credo il motivo sia duplice: da un lato il tono di velata malinconia e recriminazione “da esule” che molte lettere trasudano è sconfortante; dall’altro, mi rendo conto che i problemi cui si fa riferimento sono reali e riguardano ognuno di noi.

Più che in Luca però mi sono rivista nella lettera piena di entusiasmo di Davide, che dalla Sardegna si è trasferito in Costa Rica per frequentare uno degli United World Colleges; pensarmi in un altro Paese è sempre stato naturale. Al quarto anno di liceo chiesi ai miei genitori di fare insieme una vacanza a Londra nell’intento di visitare campus universitari e scuole d’arte. Era il 2006, avevo diciassette anni. L’anno seguente la vita prese una piega impensata; ebbi la fortuna di essere ammessa alla Normale di Pisa. In Normale si studia, si mangia, si vive insieme nei collegi, un contesto più simile a un campus anglosassone che a una tradizionale università italiana. Il carico di lavoro è notevole (ricordo ancora il saluto dopocena: “buono studio”, mai buona serata), ma si ha anche la fortuna di entrare in contatto con studiosi capaci di affascinarti. Quando qualcuno mi chiede dove abbia studiato non posso non fare dell’ironia su certi compagni di corso stralunati: dal classicista che a colazione cita Nonno di Panopoli al melomane che ti guarda disgustato se non conosci l’ultima opera di Donizetti. Però un dato è innegabile: questa scuola mette i suoi studenti a contatto con il proprio daimon, quella vocazione segreta che – lo ha spiegato James Hillman in un bel libro – tutti abbiamo e prima o poi torna a farsi viva.

Vivere in quel contesto spinge a porsi quelle domande “definitive”: che vuoi fare della tua vita? Qual è la cosa che sai fare meglio? La volontà è all’altezza del daimon? Lavorare e vivere in contesti diversi mi ha fatto capire quanto sia importante non generalizzare e non chiudersi nella dicotomia Italia vs estero: non esiste “l’estero”, esistono singoli Paesi e realtà gestite con più o meno lungimiranza. La retorica dell’esule non mi è mai piaciuta; spostarsi per lavoro è la norma e lo sarà sempre di più in futuro. Non dimentico affatto che crescere in Italia con la passione per determinati settori – soprattutto la ricerca e l’ambito artistico-museale – è sempre più arduo per chi non proviene da un contesto privilegiato. Mi piacerebbe molto riuscire nel mio piccolo a dare una mano a giovani del liceo che ora si trovano ad affrontare la scelta della facoltà universitaria: mi metto a disposizione di chiunque (studenti, insegnanti, associazioni) sia interessato per sapere qualcosa di più sulle scuole di eccellenza in Italia, o sul sistema universitario negli Usa o in Canada”. © la Repubblica