Nei giorni scorsi uno dei colossi mondiali della farmaceutica, la società americana Pfizer, ha dichiarato che non finanzierà più la ricerca su malattie neuro degenerative come Alzheimer e Parkinson (Corriere.it). I risultati di tali ricerche sono stati ritenuti non all’altezza degli investimenti profusi e la società indirizzerà i propri finanziamenti in altri ambiti. La decisione ha sollevato un dibattito sui media, dibattito in cui è intervenuto Antonino Cattaneo, Direttore del laboratorio di Biologia della Scuola Normale e ordinario di Fisiologia.

Il professor Cattaneo, in una lettera pubblicata dal Corriere.it e scritta insieme alla figlia Maria Ginevra, giurista, esprime le proprie perplessità su questa vicenda: “Per quanto ci possa essere una buona ricerca, senza l’industria non si sviluppa un nuovo farmaco”.

Qui sotto riportiamo l’intero testo della lettera, che si trova su Corriere.it

di Antonino Cattaneo, professore di neurobiologia, Scuola Normale SuperioreMaria Ginevra Cattaneo, Director Europe Incentives for Global Health

“È di questi giorni la notizia della rinuncia della Pfizer alla ricerca di farmaci per la cura del morbo di Alzheimer. Alla medesima decisione era giunta precedentemente anche la Merck. Gli esiti clinici degli ingenti investimenti posti in essere nell’ultimo trentennio si sono rivelati infatti deludenti. Nel gergo del settore, si parla degli investimenti sulla ricerca di nuove terapie per l’Alzheimer come di un «bagno di sangue». Ci troviamo quindi di fronte al paradosso di una malattia che conta 600 mila pazienti in Italia, 5 milioni negli Usa, 47 milioni nel mondo, che sta diventando una malattia negletta, ovvero una malattia sulla quale l’industria farmaceutica non trova la convenienza a investire. Tradizionalmente, vengono considerate malattie neglette o le malattie rare o le malattie che affliggono i Paesi più poveri del mondo, per le quali quindi non ci sia un mercato interessante. La situazione paradossale che si viene a creare ora è che le demenze senili, pur essendo tipiche delle società occidentali, dove il mercato avrebbe sicuramente una grande potenzialità di remunerare gli sforzi e gli investimenti dell’industria, vengono progressivamente trascurate dall’industria. È un problema globale, non di un singolo Paese, ma ci tocca da molto vicino. È poco utile, e autoconsolatorio – anche se vero – affermare «ma la ricerca va avanti» (ammesso e non concesso che i fondi pubblici per la ricerca siano sufficienti…). Per quanto ci possa essere una buona ricerca, senza l’industria non si sviluppa un nuovo farmaco. Occorre quindi richiamare l’industria alla propria responsabilità sociale, le sue scelte non possono essere solo dettate dal mercato. Produrre farmaci non è come produrre viti e bulloni e porta con sé degli imperativi etici dati i suoi potenziali effetti sociali. Spetta dunque ai nostri governi avere la consapevolezza e la visione di porre in essere misure per incentivare l’industria a tornare a investire. Vediamo come.

Come si è potuti arrivare a questo punto? Un farmaco che arriva oggi sul mercato deriva dalla ricerca di 10-15 anni prima. Gli unici 5 farmaci che troviamo oggi in farmacia (quattro dei quali sono inibitori dell’acetilcolinesterasi, basati quindi sullo stesso principio) sono il frutto della ricerca degli anni ’80 e ’90. Gli ultimi farmaci approvati risalgono attorno al 2000 (galantamina e memantina, che però era in commercio in Germania già dal 1989). Da allora, il deserto. Infatti, dalla fine degli anni ’90 , tutti i farmaci della «pipeline» farmaceutica si sono basati sulla dominante «ipotesi dell’amiloide», secondo la quale il principale colpevole della patologia sarebbe costituito dall’aggregazione anomala di un peptide (piccola proteina) che viene tagliato da una normale proteina neuronale. Senza entrare nel merito di questa ipotesi, che ha avuto solide basi scientifiche, questo approccio ha portato a una serie impressionante di fallimenti nei numerosi trials clinici che hanno messo alla prova la nuova generazione di farmaci sviluppati dalle industrie farmaceutiche negli ultimi 20 anni. In questo periodo, ogni altro approccio, ancorché basato su una solida ricerca preclinica, è stato ignorato e trascurato. L’industria farmaceutica nel suo insieme (un interessante esempio di conformismo industriale) ha puntato in modo compatto su una via, e ha perso, compatta, la scommessa. Con il duplice risultato che si è venuto a creare un vuoto di almeno 15 anni nella «pipeline» dell’industria (con la piccola eccezione di anticorpi diretti contro la proteina tau, attualmente in fase di sperimentazione clinica) e che, per di più, gli investimenti privati in questo settore sono in caduta libera. A causa di tali fallimenti, come in un gioco dell’oca, la Ricerca & Sviluppo in tema di Alzheimer Dementia è tornata al punto di partenza, con una prospettiva di 10 anni o più prima che un nuovo farmaco possa entrare sul mercato, ma con l’ostacolo aggiuntivo che l’industria disinveste. All’emergenza sanitaria causata dalla malattia, si aggiunge così l’emergenza causata dal passo indietro della industria farmaceutica. È per questo che è ampiamente riconosciuto che la ricerca nel campo delle demenze e del morbo di Alzheimer necessiti di un cambio di paradigma. Ma l’emergenza della ricerca sulle demenze non nasce oggi, e società attente avevano cominciato per tempo a prendere provvedimenti, essendo in grado di «leggere» le conseguenze dei risultati delle sperimentazioni che si andavano via via concludendo.

Nel 2013, in occasione del G8 a Londra, il governo del Regno Unito ha stilato un libro bianco sulle demenze senili che è stato sottoscritto da tutti i governi partecipanti, ponendo per la prima volta queste malattie come una priorità per le discussioni del G8, e raccomandando drastici cambiamenti nella organizzazione della R&S in Alzheimer, con programmi scientifici a lunga scadenza, creazione di reti, acquisizione ed analisi di big data sulla popolazione. In particolare, si è auspicata una alleanza pubblico-privata sulle demenze, con una maggiore collaborazione tra il settore pubblico e quello privato, un invito alla cooperazione, invece che alla competizione, tra industrie, e, soprattutto, un cambiamento drastico nella organizzazione della ricerca sulle demenze. «Dum Romae consulitur», mentre a Roma si discute, dall’auspicio la Gran Bretagna è passata ai fatti. È stato creato, con una competizione pubblica e trasparente, un Uk Dementia Research Institute, (), una rete di 6 nuovi Istituti di ricerca dedicati alle demenze (3 a Londra – Imperial College, University College, Kings College – , poi Cambridge, Edinburgo e Cardiff), con centinaia di ricercatori e finanziamenti quinquennali. È stato istituito il Dementia Research Fund (), un fondo di capitale di rischio specificamente dedicato allo sviluppo di tecnologie e farmaci per le demenze. Il governo inglese ha messo i primi 100 milioni di sterline nel fondo, al quale hanno successivamente aderito, con investimenti privati, industrie farmaceutiche (inclusa la Pfizer), organizzazioni non profit e filantropiche. Nel loro insieme, queste iniziative stanno attraendo in Inghilterra ricercatori, investimenti e brevetti, con la visione che dall’emergenza Alzheimer possa scaturire non solo la soluzione di un gravissimo problema, ma anche una occasione di sviluppo economico. Dov’è intanto il nostro Paese?

Potenziare l’organizzazione e la qualità della ricerca e creare fondi di investimento dedicati allo sviluppo di nuovi farmaci per le demenze non è tuttavia ancora sufficiente. In questo cambio di paradigma necessario, occorre a nostro avviso riconsiderare , a livello globale, il sistema degli incentivi alla ricerca industriale sulla malattia di Alzheimer, e forse anche per le altre patologie. Se è vero, come è vero, che da emergenza globale le demenze senili sono diventate malattie neglette, al pari di malattie dei paesi del terzo mondo quali la tubercolosi o la malaria, o alla stregua di malattie rare sulle quali l’industria non investe, occorre adattare e mutuare gli schemi di incentivi alla R&S che vengono previsti e studiati per queste ultime. Questa deve essere la naturale conseguenza del riconoscimento che l’Alzheimer è diventata una malattia negletta. Alla crisi della R&S sulle demenze senili di tipo Alzheimer è dunque ora che si risponda in modo innovativo anche dal punto di vista delle «regole del gioco» per chi sviluppa farmaci. Ci riferiamo al fatto che ciò che non sembra essere in discussione al momento, ma che invece riteniamo debba essere messo sul tavolo, è lo stesso sistema di incentivi in R&S che oggi è alla base dello sviluppo di farmaci per questa malattia: si tratta infatti del sistema standard di proprietà intellettuale (in particolare del sistema brevettuale internazionale) che proprio attraverso le decisioni di Pfizer e Merck ha dimostrato il suo fallimento, non riuscendo a fornire un incentivo sufficiente per sostenere e proseguire l’investimento in R&S in Alzheimer. Questo è accaduto anche perché molti approcci promettenti, provenienti dalla ricerca pubblica e da collaborazioni tra diversi enti di ricerca, hanno una protezione brevettuale debole o «complicata». Col sistema attuale, per l’industria, è fondamentale avere una protezione brevettuale forte e chiara, mentre molti approcci e programmi di sviluppo estremamente promettenti non godono di tale protezione e quindi non sono perseguiti. Lo sviluppo di un nuovo farmaco ha un costo estremamente elevato e un alto rischio; l’industria, nel regime attuale, decide di sostenere tali costi e di assumersi il rischio solo perché riceve incentivi derivanti dal sistema brevettuale (il brevetto infatti conferisce, al titolare della privativa, un monopolio sulla produzione della molecola e quindi sui profitti che ne derivano, per un certo periodo di tempo). L’attuale sistema di proprietà intellettuale internazionale, basato su un premio ex ante (il monopolio legato al brevetto) e su una remunerazione strettamente legata al successo sul mercato, non sta funzionando per l’Alzheimer, e la scelta di grandi multinazionali quali Merck e Pfizer di non investire più ne è la dimostrazione. Esistono, invece, allo studio, sistemi basati sull’impatto ex post del farmaco, in cui ciò che viene remunerato a posteriori è l’impatto sulla salute. Ci riferiamo in particolar modo a sistemi di incentivo allo sviluppo di farmaci come l’innovativo sistema dell’Health Impact Fund (Hif; formulato da Thomas Pogge (Leitner Professor of Philosophy and International Affairs della Yale University, Usa) e Aidan Hollis (professore di economia regolatoria alla University of Calgary, Canada). Alla luce di tutto ciò, il nostro intento è quello di aprire una discussione sulla possibilità di applicare alla R&S industriale, quanto meno per la malattia di Alzheimer, sistemi di incentivi alternativi all’attuale sistema brevettuale, sistemi che sono oggi in discussione per le malattie neglette e le malattie rare.

In cosa consiste lo schema dell’Hif, e come ci si potrebbe ispirare a questo schema per incentivare la ricerca industriale sulle demenze? L’ Hif è un Fondo, che dovrebbe essere sottoscritto e finanziato dai governi promotori, che premia le aziende farmaceutiche in base all’effettivo impatto del loro farmaco sulla salute globale. Il Fondo costituirebbe un supplemento all’attuale sistema brevettuale. Attraverso l’Hif, le società farmaceutiche possono volontariamente registrare i loro farmaci con il Fondo, anziché seguire il sistema brevettuale convenzionale e impegnarsi a renderli disponibili al prezzo più basso possibile a fronte del pagamento da parte del Fondo di premi per un periodo prestabilito (10 anni), sulla base del maggiore impatto sulla salute dei farmaci stessi. Ciò incentiverebbe le industrie a sviluppare medicinali per coloro i quali abbiano i maggiori bisogni sanitari e non solamente per coloro che abbiano il maggior potere di acquisto. E oggi anche l’Alzheimer rappresenta una malattia per la cui cura si abbandonano gli investimenti, non già per il poco potere d’acquisto dei suoi pazienti o dei nostri sistemi sanitari, come avviene per quelle neglette, ma per l’inefficienza e la delusione che hanno ricevuto gli investimenti privati sotto l’attuale regime di proprietà intellettuale. È necessario pertanto pensare a nuovi incentivi per la ricerca e lo sviluppo di farmaci per curarla, ispirati a iniziative quali l’Hif, e opportunamente adattate al caso della malattia di Alzheimer. Se le imprese non sono più incentivate ad investire in R&S sui farmaci contro l’Alzheimer con l’attuale sistema di proprietà intellettuale, varrebbe la pena implementare schemi che offrano incentivi alle industrie perché reinvestano sulla ricerca per l’Alzheimer, offrendo un premio in base all’effettivo impatto dei risultati della loro R&S sulla salute globale, a prescindere dall’essere titolari o meno di un brevetto cosiddetto forte. Chiediamo quindi uno sforzo ai nostri governi di partecipare e di stimolare questa discussione, nell’intento di contemperare gli interessi in gioco nel modo più efficiente possibile, sia in favore delle industrie farmaceutiche che svolgono un ruolo essenziale per lo sviluppo di nuovi farmaci, sia nell’interesse dei pazienti e della società civile.
15 gennaio 2018 , © Corriere della Sera