Sulla Domenica del Sole24Ore del 4 aprile, Salvatore Settis traccia un profilo di Edoardo Vesentini, professore della Scuola Normale e Direttore dal 1978 al 1987, recentemente scomparso.

LA MENTE APERTA DI UN MATEMATICO

Salvatore Settis

Edoardo Vesentini (Roma, 31 maggio 1928 - Pisa, 28 marzo) è scomparso a 92 anni dopo una vita ricca di successi e di momenti forti, come la direzione della Normale di Pisa e la presidenza dell'Accademia dei Lincei. Di lui resta nella memoria la capacità di identificarsi con le istituzioni, di promuoverne la vita con un occhio al futuro e (al tempo stesso) piena consapevolezza del loro passato: uno sguardo di Giano rarissimo anche fra chi dovrebbe averlo per mestiere perché coltiva una qualche scienza storica. Ma per lui, matematico, quel modo di pensare non era un'acrobazia della mente ma un abito naturale, che indossava senza parere e quasi senza volere. Un fatto di generazione, forse; ma non per questo, meno significativo né meno importante come esempio, se vissuto con l'intensità di cui egli fu capace. Perciò è l'Italia che dovrebbe piangerlo, come in questi tempi calamitosi è ancor più difficile che accada, e non solo le comunità di immediato riferimento : matematici, normalisti, accademici.
Insegnò Geometria a Pisa dal 1959 all'Università e dal 1967 in Normale, e a Pisa era la sua casa, in una bella e appartata piazza di Lungarno. La sua direzione fu tra le più lunghe nella storia bisecolare della Normale, nove anni tra il 1978 e il 1987, quando si dimise per candidarsi al Senato (fu poi eletto come indipendente nelle liste del Pci). Vesentirti non era stato normalista, ma si immedesimò pienamente in un esprit de Normale che la Scuola di Pisa condivide con la sua sorella maggiore di Parigi (l'espressione esprit de Normale dava il titolo a un libro di J. Giraudoux e J. Reignup, 1935), e che il suo predecessore Gilberto Bernardini, normalista e direttore della Normale dal 1964 al 1977, gli aveva sapientemente trasmesso in eredità.
In Normale Vesentini non si accontentò di mantener viva la tradizione ma volle rinnovarla potenziando la ricerca (anche con la creazione di alcuni laboratori, ideati in gran sodalizio con la Vice-Direttrice Paola Barocchi) e assicurando la qualità degli allievi anche mediante una sorta di prereclutamento attraverso i Corsi di Orientamento, che già Bernardini aveva inaugurato a Erice e che continuarono a lungo a Cortona per poi moltiplicarsi, negli anni 2000, fino a cinque distinte sedi da Rovereto a Camigliatello.
Non meno chiara fu la sua politica di apertura della Scuola alla città e al mondo esterno, che s'incarnò soprattutto nei Concerti della Normale (anch'essi inaugurati da Bernardini e ormai giunti alla 53^ stagione) e nei Venerdì del Direttore, serie di conferenze pubbliche, spesso di grandi personalità, che sotto varia forma continua fino ad oggi. Ma il punto cardine della visione di Vesentini, anche in questo erede di Bernardini, era che la Normale, frammento del sistema francese messo a punto fra Rivoluzione e primo Impero e singolarmente sopravvissuto in Italia, per esser fedele alla propria missione deve navigare in perpetuo, precario equilibrio fra l'università di massa, a cui è sostanzialmente estranea, e la propria tradizione doppiamente elitaria, nel reclutamento e nei fini. Sin dalla fondazione rivoluzionaria e poi napoleonica, la Normale francese (e così quella di Pisa, nata come sua "succursale") puntò infatti su una rigorosa selezione degli allievi basata esclusivamente sul merito, ma col costante progetto di formare studiosi e docenti pronti a servire il Paese e le sue istituzioni. Perciò, insisteva Vesentini in alcuni testi ancora preziosi, la Normale non può e non deve sottostare a norme che ne farebbero —diceva-- "la più piccola università italiana", rendendola inutile, quasi una duplicazione in piccolo dell'Università di Pisa (già illustre di suo), ma deve trovare, nella selezione degli allievi e del corpo docente come nelle regole di finanziamento, di bilancio e di gestione, una propria strada il più possibile indipendente. Ispirandosi a tali principi, Vesentini formulava i suoi progetti con ammirevole chiarezza e costanza, "combattendo coi colori della Normale" come amava dire, senza alcun interesse personale ma nello spirito di una piena fedeltà a un'istituzione al servizio del Paese. Sapeva bene che nessuna entità culturale sopravvive a se stessa, in condizioni storiche e sociali che per definizione mutano di continuo, se non trovando il proprio equilibrio fra rispetto della tradizione e invenzione di nuove strade, immissione di nuovo sangue nel corpo storico dei propri ordinamenti. Non fu mai, il suo, lo sciatto vangelo del doversi 'adattare' a un mondo che cambia, bensì l'orgoglio di contribuire al cambiamento guidandolo, migliorandone il tono intellettuale e l'altezza delle mete.
Anche quando si lasciò tentare dalla politica (fu senatore nella X legislatura, 1987-1992), non fu per perseguire ambizioni di carriera, ma perché convinto di poter mettere al servizio del Paese l'esperienza maturata in Italia e all'estero, e poi nella direzione della Normale. Ben poco di questo accadde, nonostante i suoi generosi tentativi, e questa esperienza finì con l'essere per lui una delusione. Un'occasione sprecata per la grande politica nazionale, che di visioni lungimiranti sente raramente il bisogno (lo stesso accadde ad altri grandi accademici come, per restare a Pisa, Alessandro Faedo, senatore Dc da1976 a1979, già rettore dell'Università pisana e presidente del Cnr). Un'altra delusione che Vesentini visse dolorosamente fu quando, conclusa l'esperienza parlamentare, si sentì a disagio in Normale, e fulmineamente trasferi la sua cattedra al Politecnico di Torino. Eppure con la Normale mantenne sempre un legame fortissimo, specialmente (negli anni dal 1998 al 2010) come membro del Consiglio Scientifico della Scuola.
Di lui merita di esser ricordato almeno un altro aspetto, la tagliente e sapiente ironia con cui sapeva scherzare anche su se stesso. Presidente dell'Accademia dei Lincei dal 1997 al 2003, a lui toccò guidare le celebrazioni del suo quarto centenario. Ma sapeva bene che, dopo la gloriosa fondazione (1603) con Federico Cesi, a cui presto si aggiunse Galileo, quella prima Accademia si spense presto nel silenzio, per risorgere solo nel 1847 nella Roma di Pio IX, e poi nel 1874 nel Regno d'Italia ad opera di Quintino Sella. Questo aveva in mente Edoardo Vesentini quando (io c'ero) cominciò una conferenza sul centenario linceo con le parole: «L'Accademia dei Lincei non ha quattrocento anni, ma li dimostra». Meravigliosa battuta, ma non solo questo: con sapienza storica ma in rigoroso spirito istituzionale, egli ci stava dicendo che la vita delle istituzioni non si alimenta con il passivo omaggio alla tradizione, ma alimentandola, rinnovandola, inventando ogni giorno la tradizione del futuro col Dna del passato. 
©Il Sole24Ore, Domenica

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