Jürgen Osterhammel

Pubblichiamo un intervento dell’allievo Marcello Reggiani, che sta svolgendo un PhD in “Storia contemporanea” alla Scuola Normale, riguardante la “Global History”, disciplina che si concentra sulla comparazione, le connessioni e i processi di globalizzazione che hanno caratterizzato aree diverse del pianeta a partire dalla prima epoca dell’imperialismo globale. Il prossimo mese di novembre partirà il primo dottorato in “Global History and Governance” della Scuola Normale, che si svolgerà tra Pisa e Napoli, con durata 4 anni. Con questo contributo si apre la serie di articoli promossi nell’ambito del progetto Visions di diffusione e disseminazione della cultura umanistica e scientifica.

Di Marcello Reggiani

Il Premio Balzan, riconoscimento prestigioso assegnato ogni anno dall’omonima Fondazione milanese a studiosi che si sono distinti in specifici ambiti di ricerca (due di ambito umanistico e due di ambito scientifico), è andato quest’anno allo storico tedesco Jürgen Osterhammel, professore di Storia moderna e contemporanea all’Università di Costanza, per i suoi studi di storia globale.

Che cos’è la Global History?

La Global History (in italiano, storia globale) è un metodo storiografico che è emerso e si è affermato negli ultimi anni. Non è facile però dire in modo esaustivo che cosa sia la Global History: il dibattito sulle giuste – o ingiuste – delimitazioni del campo di studio e di interesse di questo metodo è ancora aperto, e sembra abbastanza lontana la via di una soluzione definitiva, in parte proprio a causa della vastità di aspirazioni che lo caratterizza, cioè la dimensione globale.

In linea approssimativa e generale, sono sostanzialmente due gli elementi che caratterizzano la Global History:

  1. l’interesse per le interconnessioni, le aree di scambio, la mobilità.
  2. il tentativo di proporre nuove letture di ampio respiro (le cosiddette big histories) su un periodo storico generalmente lungo (un secolo, un’epoca, millenni) in cui si tiene presente ciò che avviene in tutto il mondo.

A ogni studioso di storia è chiaro che il ruolo degli stimoli che ci vengono dal presente è fondamentale per suscitare le domande con cui guardiamo agli eventi del passato. La Global History, quindi, si presenta innanzitutto come il tentativo di capire il mondo globalizzato e interconnesso di oggi alla luce della sua progressiva costruzione: si è cercato di risalire alle origini e caratteristiche di queste connessioni, e di individuare possibili paragoni con l’attuale incessante movimento di persone, merci e idee per vederne risultati ed effetti complessivi, alcuni dei quali arrivano fino ai giorni nostri. È un modo di fare storia figlio del nostro tempo anche perché le possibilità materiali dello storico, nell’accesso alla documentazione così come ad una vasta bibliografia in inglese che circola assai più facilmente che nel passato, sono incomparabilmente più vaste.

In questo tentativo di ripensare la storia nelle sue caratteristiche globali emergono in maniera più o meno esplicita due ordini di critiche al modo di fare storia precedente: su una scala più generale, il suo eurocentrismo; più in particolare, una definizione geografica degli spazi basata sugli Stati nazionali, cioè sulla forma di Stato nata dopo il Medioevo e affermatasi in Europa durante l’età moderna.

L’impostazione ‘nazionale’ è vista spesso come un ostacolo alla comprensione di fenomeni e movimenti che nel corso della storia si sono prodotti senza rispettare i rigidi e astratti confini fissati dall’uomo, specialmente per quello che riguarda la storia delle aree sottomesse al dominio coloniale europeo. Per di più, una storia che parte dalla prospettiva di un singolo Stato spesso non è adeguata per comprendere i fenomeni di carattere più generale e di portata più ampia – come può essere, per esempio, quello della Rivoluzione industriale –, in cui sono invece i passaggi da uno Stato all’altro (di persone, di conoscenze, di tecnologie) a dover costituire un focus privilegiato.

Per quanto riguarda invece la prima critica, quella di eurocentrismo, bisogna ricordare che gli importanti progenitori della Global History sono tutti quegli studi (i Postcolonial Studies, o studi post-coloniali) che, prima ancora di voler considerare una prospettiva globale, accusavano la presenza di un unico punto di vista sulla base del quale veniva interpretata la realtà, distorcendola: a partire da un libro fondamentale di Edward Said, Orientalismo (pubblicato nel 1978), è emerso sempre più chiaramente come la narrazione storica non fosse immune a tutta una serie di pregiudizi sull’«Oriente» che ne mistificavano le caratteristiche a fini impliciti di mantenimento del potere e di dominio culturale e politico dell’«Occidente», perpetuando così un senso di «superiorità» morale, tecnologica e storica poi ben presto scalfito dall’emergere delle «Tigri Asiatiche» (Cina, India e, prima ancora, Giappone) nel gioco delle grandi potenze europee.

Una storia veramente globale, che dia il giusto peso a tutti gli eventi senza assumere, possibilmente, un punto di vista privilegiato, dovrebbe essere quindi in grado di «smascherare» le narrazioni parziali e offrire nuovi spunti su un’interpretazione complessiva del passato che sembrava ormai definitiva.

Il lavoro di Jürgen Osterhammel

È per questo tipo di nuova narrazione che Jürgen Osterhammel ha vinto il premio Balzan 2018 dedicato proprio alla storia globale: oltre al suo ultimo lavoro (Unfabling the East: The Enlightenment’s Encounter with Asia, 2018), l’opera che forse più ha caratterizzato l’impegno dello storico tedesco è il libro monumentale The Transformation of the World: a Global History of the Nineteenth Century, pubblicato nella sua versione in lingua inglese nel 2014 da Princeton University Press. Il volume illustra le trasformazioni globali che interessarono l’Ottocento, un secolo di rivoluzioni, superando la prospettiva eurocentrica e descrivendo un mondo sempre più interconnesso: è quindi un esempio efficace di come si può applicare una prospettiva globale allo studio di periodi storici particolarmente significativi.

La prospettiva globale che assume Osterhammer nel suo studio sull’Ottocento permette di vedere che due idee solitamente associate al XIX secolo nella sua interezza furono in realtà prodotti di un suo periodo più breve, quello terminale: la Rivoluzione industriale, che ha fatto sì che interpretassimo l’Ottocento come un’età di modernizzazione, non fu infatti un processo né rapido né omogeneo, e attraversò la Manica e l’Atlantico solo nell’ultimo ventennio del secolo. Con la Rivoluzione francese poi, non nascono ovunque gli Stati borghesi, liberali e costituzionali: piuttosto, in tutta Europa si assiste alla nascita di forme ibride di dominazione, che vedono convivere una borghesia in ascesa e una aristocrazia «persistente» (che tramonterà definitivamente solo nel secolo successivo), entrambe piuttosto restie a istituire forme di governo democratico nel senso che oggi conosciamo. Inoltre, i processi di razionalizzazione amministrativa che potremmo aspettarci solo nelle zone più «avanzate» del continente europeo avevano luogo, in forme peculiari ma comparabili, anche in Cina, India, Giappone e alcune aree dell’Africa occidentale.

La prospettiva globale permette di individuare tre diverse «ondate» rivoluzionarie nel corso dell’Ottocento. Una prima ondata, il cosiddetto «Atlantico Rivoluzionario», che si sviluppa tra la fine del ‘700 e l’inizio del secolo successivo con la rivoluzione americana, quella francese e la lotta per l’indipendenza di Haiti: queste tre rivoluzioni sono strettamente collegate tra loro, e costituiscono un ottimo esempio di quella mobilità di idee e di culture che è uno dei campi privilegiati dell’indagine della Global History. La seconda ondata, che ha luogo nella parte centrale del secolo, mostra invece una serie di episodi (i moti del ’48 in Europa, la rivolta dei Taiping in Cina, quella dei Sepoy in India e la guerra civile americana) che presentano ben poche connessioni tra loro, mentre l’ultima fase (comprendente la rivoluzione russa del 1905, quella costituzionale persiana del 1905-11, il successo del movimento dei Giovani Turchi nell’impero Ottomano nel 1908 e la rivoluzione cinese del 1911) è paradigmatica di un modello rivoluzionario ottecentesco alle soglie della Prima guerra mondiale in cui, con l’eccezione del caso russo, questi mutamenti politici vengono sostenuti e attuati «dall’alto», con il protagonismo degli intellettuali e delle élites militari.

Tra numerose altre questioni, lo sguardo di Osterhammel si sofferma anche sul problema della guerra. Se è indubitabile che il continente europeo, nonostante i numerosi conflitti che si crearono al suo interno, visse tutto sommato in un’epoca di pace (quantomeno se paragonata ai terribili massacri del secolo successivo) e di relativo ordine internazionale, nel resto del mondo le potenze coloniali, gli «imperi», prosperarono in un regime di «anarchia controllata», caratterizzato da una pianificata o assecondata destabilizzazione politica, sociale e demografica, fino a veri e propri «genocidi» (rispetto alla definizione dei quali il dibattito storiografico è tuttora spinoso e molto aperto).

In linea generale dunque, la Global History si propone di analizzare lo scorrere del tempo sfidando i punti di vista consolidati: prendendo in considerazione casi locali poco studiati dalla tradizione storiografica occidentale e inserendoli all’interno di una narrazione che si allarga nello spazio fino a cercare di coprire tutto il mondo, questo metodo permette non solo di aggiungere nuove informazioni alla conoscenza degli avvenimenti, ma soprattutto di arricchire e complicare l’interpretazione in modo tale da garantire la massima completezza. In questo modo, potremmo dire che è paradossalmente più vicina negli intenti e nelle aspirazioni a opere come quella di Erodoto (il primo «storico» del mondo occidentale a raccontare le vicende del mondo allora conosciuto) che non alla storiografia «moderna» che nasce nell’Ottocento soprattutto con l’intento di ricostruire la nascita delle Nazioni europee.