Così viene definita la “fuga dei cervelli” dal nostro paese negli istituti di ricerca di altre nazioni in un articolo co-firmato da Mario Pianta della Scuola Normale Superiore pubblicato su Science and Public Policy e ripreso da Nature Italy e da Repubblica. 14.000 ricercatori sono emigrati in 12 anni.
Pisa, 22 marzo 2021.
Dal 2008 al 2019 l’Italia ha visto migrare circa 14.000 ricercatori all’estero. Una sorta di esodo di cervelli di cui un recente studio ha analizzato caratteristiche, motivazioni, risvolti. Mario Pianta, professore di Politica economica alla Scuola Normale Superiore, sede di Firenze, è coautore dello studio (gli altri autori sono Leopoldo Nascia e Thomas Zacharewicz), pubblicato in articoli sulla riviste Science and Public Policy e Affari sociali internazionali, ripreso in questi giorni da Nature Italy e oggi sulle pagine toscane di Repubblica.
Lo scarso finanziamento della ricerca in Italia, le peggiori condizioni salariali, di lavoro e di carriera sono tra i fattori che hanno portato a questo esodo.
I finanziamenti in Italia per la ricerca e l’università sono diminuiti sistematicamente tra il 2007 (9,9 miliardi di euro) e il 2015 (8,3 miliardi di euro), in un contesto di riduzione complessiva della spesa pubblica. Nel 2015, la spesa totale in ricerca e sviluppo rappresentava l’1,34% del PIL, lontano dal 3% del PIL previsto entro il 2020 stabilito nella strategia di Lisbona. Sebbene sia aumentato fino all’1,39% del PIL nel 2018, il divario con la media dell’UE si è ampliato. Ciò ha avuto un forte impatto sulle risorse umane, soprattutto a livello universitario, dove il numero di professori e ricercatori a tempo indeterminato è diminuito del 20% tra il 2009 e il 2016 (da 60.882 a 48.878 unità).
Le peggiori condizioni salariali nel nostro paese emergono dall’indagine MORE3 (Mobility Patterns and Career Paths of EU Researchers) realizzata dalla Commissione europea. Nel campione di ricercatori coinvolti, la metà di quelli che lavorano in Italia (e tre dottorandi su quattro) dichiara di essere pagata male o quanto basta per sbarcare il lunario, contro il 15% dei ricercatori italiani che lavorano in altri paesi.
Il pessimismo sulle prospettive di carriera e le cattive condizioni di lavoro in Italia sono altre ragioni fondamentali per cui i ricercatori italiani migrano all’estero. La mancanza di trasparenza nelle modalità di assunzione influenza anche quella che gli autori dell’articolo chiamano “mobilità forzata”. Il reclutamento nell’istituto di appartenenza è considerato trasparente e meritocratico infatti solo dal 57% dei ricercatori in Italia mentre dall'80% di quelli all’estero. I ricercatori italiani emigrati hanno inoltre il doppio delle probabilità di essere fiduciosi sulle loro prospettive di carriera rispetto a quelli ancora in Italia.
Per le loro analisi gli autori hanno incrociato vari dati, forniti da Ocse, Anvur e da MORE3 (Mobility Patterns and Career Paths of EU Researchers), una indagine sulla mobilità della ricerca internazionale finanziata dalla Commissione Europea e condotta nel 2016, che ha esaminato una popolazione di 1.373.130 ricercatori di trentuno paesi, raccogliendo 10.394 risposte, tra cui 581 provenivano da ricercatori italiani (374 residenti in Italia, 207 che lavorano in istituti di istruzione superiore stranieri).
Il gruppo dei ricercatori italiani all’estero è prevalentemente di età inferiore a 45 anni (152 soggetti) con una quota significativa di donne (81). Più della metà dei ricercatori all’estero si trova nelle prime due fasi della carriera, sono cioè dottorandi, post-doc e ricercatori junior, impegnati prevalentemente nelle scienze naturali o l’ingegneria. I paesi più attraenti sono il Regno Unito (21,2%), gli Stati Uniti (14%), la Germania (11,7%) e la Francia (11,2%).