E’ stato mappato il genoma del vertebrato dalla vita più breve, il Nothobranchius furzeri, un pesciolino del Mozambico che a tre settimane è in grado di riprodursi e in pochi mesi completa il suo ciclo vitale. I risultati finora raggiunti gettano una nuova luce sui processi di invecchiamento tanto che la rivista scientifica Cell, la più prestigiosa al mondo in ambito biomedico, ha deciso di pubblicare la ricerca, nata qualche anno fa nella Scuola Normale e adesso condivisa da altri istituti internazionali, come il Leibniz Institute on Aging e la Stanford University.

Per la prima volta è stato dimostrato come, in un vertebrato, i programmi genici attivati durante l’invecchiamento e lo sviluppo embrionale siano simili. Come adattamento al suo ambiente il Nothobranchius furzeri è infatti in grado di bloccare lo sviluppo dell’embrione in una condizione detta diapausa, quando le pozze d’acqua in cui vivono si prosciugano.  Le stesse condizioni di vita nella savana africana sono state riprodotte in laboratorio e in maniera del tutto inaspettata si è scoperto che i processi genici attivati durante l’invecchiamento e la diapausa sono simili. In particolare, sono attivati i geni responsabili per la sintesi di nuove proteine. Ma se durante l’invecchiamento questo processo ha lo scopo di compensare l’accumulo di danni a carico delle proteine, durante la diapausa, che è una fase di stasi, questa funzione per adesso rimane misteriosa ed è su questo aspetto che sono indirizzate le ricerche future.

Dodici anni fa Alessandro Cellerino, ricercatore presso il Laboratorio di Biologia Bio@SNS della Scuola Normale Superiore, descrisse per la prima volta il rapidissimo ciclo vitale del Nothobranchius furzeri ed i risultati hanno successivamente attirato l’interesse di ricercatori in Europa e negli Stati Uniti perché, durante la sua breve vita, il pesciolino del Mozambico sviluppa le stesse patologie che affliggono gli anziani: tumori, malattie cardiovascolari e neurodegenerazione. “Tutti questi animali mostrano un invecchiamento accelerato e permettono di svolgere, nell’arco di mesi, ricerche che richiederebbero anni nel topo – spiega Cellerino-. Si è scoperto tra l’altro che i geni associati all’invecchiamento non sono posizionati casualmente nel genoma, ma si concentrano in alcune regioni specifiche.  L’esistenza di questi hot-spots suggerisce come i geni all’interno di queste regioni siano in qualche modo accoppiati, forse a causa della struttura fisica dei cromosomi. Questo potrebbe rappresentare anche nell’uomo un meccanismo responsabile per la apparente coordinazione del processo di invecchiamento tra cellule e tessuti diversi”.

“Con questi risultati, abbiamo raggiunto un livello di dettaglio che è paragonabile a quello raggiunto venti anni fa con il primo sequenziamento del genoma umano”, spiega Matthias Platzer, che dirige il gruppo di Genome Analysis al Leibniz Institute on Aging ed ha partecipato anche allo Human Genome Project. Secondo Antonino Cattaneo, Direttore del Laboratorio Bio@SNS della Scuola Normale, “la ricerca e questo modello sperimentale danno un contributo importante alla competitiva piattaforma tecnologica che stiamo sviluppando presso il Laboratorio Bio@SNS della Scuola Normale, per accelerare la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci per le malattie legate all’invecchiamento ed alla neurodegenerazione, quali la malattia di Alzheimer”.

Tutti i dati generati in questo studio sono liberamente accessibili via web alla comunità scientifica mondiale e permetteranno, tramite ulteriori analisi, di formulare ipotesi sui geni chiave che controllano il processo di invecchiamento, visto che i geni di questo pesciolino sono presenti anche nel genoma umano.

 

Andrea Pantani
Pisa, 3 dicembre 2015