È noto come le differenze individuali nella sequenza del genoma influenzino la longevità, ma un nuovo studio pubblicato il 24 di Febbraio sul Cell System suggerisce come anche differenze nello schema individuale di attivazione dei geni già in giovane età siano predittive per la longevità. Studiando il vertebrato dalla vita più breve -il pesce annuale africano Nothobranchius furzeri- si è osservato che se i geni responsabili per la produzione di energia nella cellula sono meno attivi durante la prima parte della vita, gli animali tendono a vivere più a lungo.

Per questa ricerca, il gruppo di ricerca guidato da Alessandro Cellerino della Scuola Normale ed i suoi collaboratori presso il Leibniz Institute on Aging di Jena hanno utilizzato una tecnica genomica di nuove generazione detta RNA-seq che ha consentito di quantificare il livello di attività per ognuno dei geni del genoma in pezzetti di pinna prelevati in diversi momenti durante la vita degli animali che sono poi stati suddivisi in gruppi in base alla lunghezza della loro vita. Anche in condizioni ottimali, la vita di questi pesci è compresa tra i quattro ed i dodici mesi.

Il risultato di queste analisi è che nei pesci che sono vissuti più a lungo, i geni responsabili per la respirazione cellulare  -il processo attraverso il quale degli organelli all’interno della cellula detti mitocondri usano l’ossigeno per bruciare lo zucchero e produrre energia- erano stati meno attivi in giovane età.

Quando i ricercatori hanno esposto i pesci ad un veleno detto rotenone che lega queste proteine (anche dette complesso I) bloccandone l’azione, utilizzando però solo un millesimo della dose letale, i pesci sono vissuti più a lungo e l’attività del loro genoma è “ringiovanita” ovvero è ritornata ad una condizione più simile a quella di animali giovani.

Anche se sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere quanto questi risultati siano traslabili all’uomo, Cellerino fa notare come la funzione dei mitocondri diminuisca con l’età tanto nell’uomo quanto nei pesci. “Sino ad ora, si è creduto che la strada per promuovere un invecchiamento in salute passasse per trattamenti in grado di contrastare questa perdita di attività dei mitocondri, ma i nostri risultati indicano un situazione più complessa nella quale, paradossalmente, una inibizione parziale dei mitocondri esercita un effetto positivo”. Questo probabilmente accade perché si genera una piccola quantità di radicali liberi che non danneggia la cellula, ma attiva i suoi meccanismi protettivi, un meccanismo noto come ormesi  “è stato dimostrato che la ormesi é responsabile, ad esempio, per gli effetti dell’allenamento sul muscolo e che gli antiossidanti bloccano gli effetti benefici della attività fisica” spiega Cellerino.

Questa ricerca suggerisce come un processo fisiologico che diminuisce durante l’invecchiamento non necessariamente sia causa di danno, ma potrebbe invece rappresentare una risposta dell’organismo che tenta di preservare le sue funzioni.  “Comprendere questo processo è ovviamente di primaria importanza per poter sviluppare strategie volte a migliorare la salute nella popolazione anziana” dice Cellerino. In questo ambito è interessante notare come esista già un farmaco che ha come effetto collaterale una inibizione del complesso I. Questo farmaco è la metformina, un antidiabetico prescritto a milioni di pazienti nel mondo e che è in grado di allungare la vita dei topi in laboratorio. “Sulla base dei nostri dati, possiamo avanzare l’ipotesi che questo effetto della metformina sia dovuto alla sua attività sul complesso I e non ad un effetto antidiabetico” conclude Cellerino.

Secondo Antonino Cattaneo, Direttore del Laboratorio Bio@SNS della Scuola Normale, al cui interno Alessandro Cellerino ha svolto le ricerche che hanno portato a questo risultato,  “l’aspetto importante di questa ricerca è che unisce domande fondamentali di biologia di base, con aspetti di interesse direttamente applicativo, legati alla possibilità di sperimentare l’azione di sostanze che possano agire sulla aspettativa di vita di un vertebrato, (in alternativa ai modelli del moscerino della frutta e del verme nematode), con risultati molto più predittivi per l’uomo. Questa ricerca e questo modello sperimentale danno un contributo importante alla competitiva piattaforma tecnologica che stiamo sviluppando presso il Laboratorio Bio@SNS della Scuola Normale, per accelerare la ricerca e lo sviluppo di nuovi farmaci per le malattie legate all’invecchiameno ed alla neurodegenerazione, quali la malattia di Alzheimer”