Discorso in occasione della cerimonia di consegna dei diplomi di licenza normalista 22 Dicembre 2021.

di Allegra Iafrate

Ringrazio per questo invito, che mi onora, il Direttore prof. Luigi Ambrosio. Il mio solo rammarico è quello di non poter essere con voi, a Pisa, a festeggiare questo momento importante. Mi trovo in Belgio come attachée culturale dell’Ambasciata d’Italia e quello che vedete alle mie spalle è il velluto del teatro dell’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles, dove ho da qualche mese preso servizio per la mia prima missione estera.

Quasi due anni fa si è infatti concluso il concorso per funzionario della promozione culturale, grazie al quale sono entrata al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale assieme ad altri 43 colleghi e colleghe; mi piace qui ricordare altri normalisti che lavorano per la Farnesina: l’amico Tommaso Mari, valente classicista, che ha vinto il mio stesso concorso e si trova a Roma dove, come mi ha detto, aspira ad essere “un luminoso burocrate”, l’antichista Francesco Ziosi, vincitore del precedente concorso bandito dal MAECI, oggi direttore dell’Istituto di Zurigo e prima di quello di Monaco di Baviera, e lo storico Marco di Sabatino, che ha intrapreso la vera e propria carriera diplomatica ed è attualmente di stanza in Libano.

Essere qui a parlarvi oggi mi rende molto felice; e tuttavia fa riflettere che questo invito mi sia giunto proprio nel momento in cui la mia traiettoria professionale si è maggiormente allontanata dal mondo accademico, nel quale sono rimasta grazie a vari post-doc dal 2013, anno della mia discussione di perfezionamento, fino al 2020.

Quello che faccio qui, infatti, non è direttamente connesso alla ricerca e all’università anche se rimane profondamente legato all’ambito culturale in tutti i suoi aspetti: letterario, linguistico, cinematografico, artistico, musicale, accademico e anche scientifico. Gli istituti italiani di cultura sono infatti organismi del Ministero degli Esteri che hanno come scopo la promozione della lingua e della cultura italiana, passata e presente, nel mondo. Sono finanziariamente autonomi e gestiscono un budget annuale con il quale invitano personalità, organizzano mostre, concerti, spettacoli teatrali, convegni, presentazioni di libri, proiezioni di film. La programmazione è rivolta tanto alle comunità di italiani residenti all’estero che, e soprattutto, agli abitanti del paese in cui si trovano. Sono in questo momento circa un’ottantina, dipendono formalmente dai consolati o dalle ambasciate e quindi sorgono in grandi città, dove esistono rappresentanze diplomatiche. La maggior parte si trova in Europa ma ne esistono molti anche in nord e sud America, in Africa e in Asia. Costituiscono una rete di piccoli avamposti che dialogano con le istituzioni culturali italiane. È un lavoro non troppo diverso, per certi versi, da quello del Forum degli Allievi, anche se si accompagna a una discreta mole di attività amministrativa. Quindi nel corso della stessa mattina ci si può occupare contestualmente di organizzare il trasporto di una mostra, controllare i beni d’inventario, redigere un contratto e occuparsi della promozione social di un qualche evento. È un mondo vario, dove non ci si annoia ma dove si è, per citare le parole di uno dei nostri Direttori Generali, allo stesso tempo mozzi e capitani. Tutto questo è lontano, anche se certo non sideralmente, dal mondo della ricerca.

Mi sono quindi chiesta in che misura la mia esperienza personale e la mia parabola lavorativa possano esservi utili, ora che vi trovate, come avrebbe detto Jack Kerouac, “sulla linea divisoria fra l’est della [vostra] giovinezza e l’ovest del [vostro] futuro”.

Ho ripensato allora al 18 ottobre 2010, giorno in cui ho ricevuto il mio diploma di licenza. Si celebrava per tutti la conclusione di cinque anni di grande palestra intellettuale e si apriva al contempo, un ambito di spaventosa libertà creativa. E dico spaventosa con una certa consapevolezza. La fine del percorso di studi può far paura. Io ne avevo, ad esempio. Il giorno in cui mi trovavo al vostro posto ero, così come sono stata nel corso di tutti gli anni universitari, molto inquieta e incerta sul mio avvenire, senza alcuna precisa idea di cosa avrei potuto o saputo fare, timorosa che l’intraprendere definitivamente un percorso mi avrebbe precluso i molti che sentivo ugualmente di amare.

Questo è un tratto caratteriale che da sempre mi accompagna e che la Scuola in qualche modo ha favolosamente assecondato, dandomi, nel corso dei cinque anni di corso ordinario, la straordinaria chance di sperimentare in tutti i settori, seguendo le mie inclinazioni e senza nessun’altra restrizione se non quella del tempo a mia disposizione. Se la ripercorro ora, è per esprimere la mia riconoscenza ad un’istituzione per certi versi unica, che ha permesso a tanti altri amici e colleghi di compiere percorsi altrettanto ricchi e variati.

Mi sono diplomata in violino a Cesena alla fine del primo anno di studi, mentre seguivo all’Università di Pisa i corsi di lettere moderne; alla Scuola ho preparato per cinque anni di fila colloqui di storia dell’arte, materia in cui alla fine mi sono perfezionata; e negli stessi anni ho seguito, fra la Normale e l’università, corsi di letteratura araba, ebraica e siriaca, visitando poi con quello che sarebbe diventato il mio futuro marito zone splendide e dimenticate della Turchia orientale e del Kurdistan iracheno. Ho scavato sull’acropoli di Segesta con gli archeologi della Scuola, grazie al placement – e a Elisa Guidi e approfitto dell’occasione per ringraziarla ancora una volta per tutto quello che ha fatto – ho passato un mese all’ufficio edizioni della galleria Guggenheim di Venezia, un mese a Livorno, lavorando nella redazione del Tirreno, tre mesi a San Francisco, a fare visti e a preparare programmi didattici per il Consolato d’Italia (di fatto il mio primo contatto ravvicinato con la Farnesina); al mio ritorno con alcuni amici normalisti abbiamo messo su un programma radiofonico che si chiamava “Carovana” e che andava in onda, sulla webradio della facoltà di economia, tutti i lunedì. E per chi, come me, seguiva i corsi di storia dell’arte, c’è stata la possibilità davvero straordinaria di viaggiare in tutta Italia e all’estero, in modo sempre gratuito, assieme a professori e a compagni di studi indimenticabili, assieme ai quali ho scoperto le ville palladiane in Veneto e il palladianesimo inglese, le collezioni archeologiche a Roma e quelle che si trovano a Copenaghen, innumerevoli città d’Italia nelle Marche, in Lombardia, in Toscana, in Emilia-Romagna, in Piemonte…

            Questo, quindi, era il mio bagaglio di esperienze alla fine del corso ordinario. Ho voluto ricordarlo perché, in assoluta controtendenza rispetto a quanto oggi spesso si consiglia, sempre nell’ottica di trovare più facilmente lavoro, nessuno alla Scuola ha mai insistito per strutturare fin da subito un’erudizione a senso unico, per creare un profilo disciplinare riconoscibile e allineato ai format del MIUR. Qui non c’è stato alcun accanimento specialistico. E questo non certo perché io non avessi una figura di riferimento in grado di guidarmi attraverso le secche del mondo accademico, come è capitato ad altri amici. Al contrario. Io ho avuto una relatrice il cui magistero giganteggia nel mio ricordo e la cui scomparsa, avvenuta nel 2014 quando aveva 55 anni, non cessa di agitare dentro di me un senso di irrimediabile orfanità. Maria Monica Donato, docente di storia dell’arte medievale, nel corso del nostro primo ricevimento mi disse che per il mio colloquio di passaggio d’anno – e per ogni futura ricerca a venire – avrebbe voluto vedere ‘una mappa’, per sapere da dove muovevo, a cosa miravo, e come intendevo arrivarci. E forse non è un caso che l’ultimo libro che ho scritto è dedicato alla ricerca di tesori. Quella mappa ha fatto varie giravolte ma è ancora al centro dei miei pensieri. Cardinale era per lei il senso della direzione logica e argomentativa del pensiero, della costruzione formale del testo, che fosse di un singolo periodo o di una tesi intera, della geografia dei riferimenti. Con un lavoro paziente, che cominciava dalla punteggiatura e finiva alla bibliografia, ha costellato di DM (che non erano le sue iniziali ma la sigla per “dire meglio”) tutte le mie prove di scrittura accademica, facendomi intuire che con molto lavoro si poteva forse acquisire quella qualità che i nostri amati monaci medievali avrebbero chiamato subtilitas, cioè la raffinatezza del pensiero e la precisione dell’opera.

Non è quindi per mancanza di una guida attenta e amorevole che il mio percorso si è dipanato in modo così libero: è la Scuola, attraverso i suoi professori e attraverso la sua organizzazione, che mi ha dato licenza e mi ha indirettamente incoraggiato ad essere al contempo letterata, storica dell’arte, violinista e orientalista mancata – il tutto gravitando attorno alla piccola, familiare e troppo spesso ingiustamente vituperata Pisa che, come tutti gli ecosistemi chiusi, costringe da sempre a confrontarsi in modo a volte ossessivo con gli altri e con sé stessi, potenziando quel ben noto senso di insicurezza e fragilità che faceva sì che, già ai tempi in cui frequentavo la Normale e, penso, anche oggi, molti di noi – spesso anche le menti più acute – fossero spesso attanagliate da una forte sindrome dell’impostore.

L’esperienza fatta alla Scuola e la percezione complessiva del percorso di ciascuno, in ultima analisi dipende, quindi, da quanto forte è stato quello che con terminologia tipica del Ministero degli Esteri si definirebbe “il coefficiente del disagio”. È indubbio che ciascun normalista, a un certo punto, abbia dovuto fare i conti con le proprie ansie, con esiti molto diversi.

Io personalmente ho un enorme debito di riconoscenza verso questa città, in cui ho vissuto complessivamente dal 2005 al 2013, cioè fra i 20 e i 28 anni, un momento decisivo di formazione, non solo accademica ma direi soprattutto personale, una fase per me tellurica sia sul piano dei sentimenti che dei ragionamenti, entrambi costantemente messi alla prova da compagne e compagni di studio brillantissimi e pieni di fascino; poco meno di una decade passata a Pisa, quindi, che curiosamente è anche il tempo massimo consentito dalla Farnesina ai suoi funzionari in missione, ai quali non è concesso di passare più di otto anni consecutivi all’estero. Se, per assurdo, Pisa fosse meta di assegnazione estera, nessuno potrebbe trascorrerci sia il periodo ordinario che quello del perfezionamento e forse – lo dico per inciso – sarebbe una misura di saggezza, quest’obbligo a cambiare. Perché dopo molti anni passati nello stesso posto, in relativa sicurezza mentale ed economica, è sempre difficile, a volte persino traumatico, affacciarsi nuovamente a contemplare l’orizzonte lavorativo, sperando in una borsa, stage, opportunità, o contratto di qualche tipo.

            Ed è più o meno a questo punto che vi trovate voi, oggi, in attesa del diploma di licenza. Pensandoci mi sono resa conto che è un nome ormai del tutto desueto, quello con cui continuiamo a chiamare la pergamena che state per ricevere. Conserva traccia del grado accademico dato anticamente nelle università a chi aveva sostenuto un certo numero di esami e che dava diritto di svolgere la professione. Oggi, com’è noto, chi vuole insegnare sa bene che la laurea non è che il primo passo di una trafila più lunga e complessa; il diploma della Scuola non ha più valore legale e il nome è rimasto come un relitto del passato.

Credo, tuttavia, che il termine licenza non smetta per questo di essere per noi attuale. Nell’accezione appena evocata indica l’estensione delle competenze acquisite e delimita il perimetro in cui è possibile esercitarle: equivale a una patente concessa dall’istituzione. Come ho imparato studiando un po’ di diritto amministrativo per l’esame di concorso, la licenza è un permesso conferito da un organo superiore a qualcuno che ha un grado subalterno: in quel momento si apre uno terreno di liceità che prima non c’era.

In realtà, pensandoci, la stessa parola evoca anche un percorso opposto e speculare. La licenza non solo la si dà, ma a volte ce la si prende, con un’inversione dei rapporti di potere all’interno di uno spazio che parrebbe già gerarchicamente delimitato da regole precise. Solitamente è l’ambito della grammatica o dell’arte, quello in cui poeti, artisti e musicisti forzano le convenzioni. Non pare quindi uno spazio assoluto eppure tanto basta perché questa parola – licenza – ci permetta uno spiraglio di ambiguità interpretativa.

Oggi, e per un istante, vorrei quindi prendermi la libertà di risemantizzare l’idea che abbiamo di questo diploma, per invitarvi a considerare che se questo pezzo di carta non dà nessuno sbocco lavorativo immediato e conseguente, apre tuttavia a uno spazio di grande libertà creativa.

            Fra le tante persone con cui ho avuto il piacere e la ventura di condividere un pezzo di strada alla Scuola ce ne sono tantissime che hanno esplorato poeticamente questo spazio, lavorando in case d’aste, scrivendo versi, diventando giornalisti, sceneggiatori, agenti letterari, funzionari del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, illustratori, archivisti e, naturalmente, bravissimi insegnanti. C’è chi non ha avuto paura di rimettersi a studiare ed è diventato medico, c’è chi, con altrettanto coraggio, ha lasciato i corridoi delle facoltà e si è messo a fare del vino. Nessuna di queste persone ha avuto una traiettoria lineare e queste scelte sono state frutto spesso di una grande costanza e di molti sacrifici. E naturalmente c’è chi, fra noi, amando profondamente studiare ha continuato a farlo, di post-doc in post-doc, di assegno in assegno, in uno sforzo di transumanza e di resistenza che davvero farebbe invidia a molti diplomatici di carriera.

Io, ad esempio, appartenevo a questo gruppo ma, pur considerando quel tipo di vita un’esistenza privilegiata, visto che – come diceva un altro caro amico normalista, “ti pagano per leggere” – ho sofferto una certa solitudine, sensazione peggiorata dall’ansia costante di dovere, ogni sei mesi o dopo pochi anni, trovare un nuovo ingaggio.

Paradossalmente è stato proprio il lungo apprendistato in Normale a farmi vivere con fatica questa condizione precaria perché la Scuola, nel mantenermi per tanto tempo, mi ha abituato a pensare che lo studio ha una dignità profonda, è un’attività lavorativa e non un hobby e merita quindi di essere retribuito. Ho quindi accolto la vittoria del concorso per la Farnesina, e il posto di lavoro che ne conseguiva, con gratitudine perché mi ha permesso di essere al servizio del mio paese, lo stesso che mi ha garantito una formazione gratuita di prim’ordine, e di poter rivendicare la mia indipendenza senza debiti di gratitudine e senza trascinarmi in un’eterna incertezza. Ma, ve lo garantisco, non è stata una decisione facile e molte cose, di quel mondo, mi mancano, a partire da quel senso di appartenenza, di affinità elettiva che si cementa in tanti momenti passati insieme a condividere la bellezza delle cose imparate insieme e che torna fuori, in modo del tutto spontaneo, come se ci si fosse lasciati pochi istanti prima, quando poi ci si rincontra.

È anche per questo che essere con voi oggi, per partecipare alla vostra festa, mi fa un enorme piacere. Penso che, molti anni da adesso, quando vi ritroverete in un angolo di mondo potrebbe capitarvi in modo del tutto inatteso di incrociare un vecchio amico, un collega, o qualcuno che magari conoscevate soltanto di vista e l’aver fatto la Scuola vi farà sentire meno soli. A me è capitato a Bruxelles, ad esempio, dove ho incontrato casualmente una valente italianista che ai tempi della Scuola non conoscevo bene. È stato un grande regalo.

La forza della Normale sono i suoi allievi, oggi siete voi. Venite quindi a ritirare questo diploma, sapendo che va inteso in modo molto diverso rispetto al passato. Se lo sforzo che avete fatto in questi cinque anni per guadagnarvelo è identico a quello fatto dei vostri predecessori, certamente diverso è il mondo che si squaderna al vostro passaggio in questo momento.

Certo, non potremo essere tutti professori, come forse una volta succedeva più frequentemente, ma io vi invito a diventare dei professionisti, qualunque cosa decidiate o riusciate a fare. La sciatteria, la negligenza, la superficialità che si riscontrano in moltissimi ambiti lavorativi si combattono con quella subtilitas che tanto era cara alla mia relatrice, prendendosi la responsabilità, una nota a pie’ di pagina alla volta, di dire, scrivere e fare le cose al meglio della propria capacità, con l’onestà e il rigore intellettuale imparati in questo posto. E non parlo solo dell’esempio che ci è stato dato dai tanti ottimi professori che ciascuno di noi ha incontrato ma anche di quello, a volte più silente ma non per questo meno prezioso, dei membri del personale della Scuola addetti alla mensa, alla pulizia, all’accoglienza, alla biblioteca e al personale tecnico-amministrativo che in tanti modi preziosi hanno reso la nostra permanenza in questo luogo migliore. Io lo penso sempre: basterebbe un Mario Landucci in ogni Istituto Italiano di Cultura nel mondo e la Farnesina non avrebbe più problemi amministrativi. E se ci aggiungessimo anche la dott.ssa Manescalchi non avremmo più momenti di malumore.

Vi vorrei salutare ricordando un famoso frammento di Archiloco, ripreso da Berlin in un altrettanto celebre saggio sui diversi approcci del pensiero alla realtà: “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Ecco, che siate volpi o che siate ricci, non importa: prendetevi questa e altre licenze, senza soggezione, perché ciascuno di voi ha il diritto di vivere senza sentirsi soffocare da contesti che mortificano il talento. Non siete soli: di normalisti è pieno il mondo.

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